Serramanna, via dal vuoto e dalla povertà

Un cartello della superstrada 131, l’arteria che attraversa la Sardegna da nord a sud, annuncia che manca ancora qualche chilometro alla deviazione per Serramanna. È solo la fine di marzo ma nel sud dell’isola il sole picchia quasi fosse già estate; intorno carciofaie rimandano riverberi argentati. Siamo nel Campidano, una regione fertile dell’isola coltivata ad ortaggi, frutta e cereali: qui sorge Serramanna, un centro di circa 9 mila 500 abitanti, distante 32 chilometri da Cagliari, capoluogo dell’isola. Il paese, un tempo prospero grazie all’agricoltura, è oggi un centro vampirizzato dalla disoccupazione. Da qui provengono otto minatori impiegati attualmente al cantiere Alptransit di Bodio-Pollegio. Minatori in senso lato, perché in realtà il gruppo serramannese è composto per lo più da carpentieri. È già quasi l’una ma pochissime persone sono in strada. Pochi i negozietti che si scorgono in giro; in qualche cortile privato a ridosso dell’arcata aperta che dà sulla strada vendono carciofi riposti su cassette di legno. Purtroppo quasi tutti i minatori sono partiti stamattina, solo Marco Pilco ha avuto un giorno libero in più: lo incontreremo nel pomeriggio insieme a sua moglie Daniela e Wilma Zuddas, sposata con Gianluca, locomotorista al cantiere di Bodio-Pollegio. C’è tempo dunque per vagare fra le stradine strette del paese, fra le case in mattoni crudi, tipici della zona, i cosiddetti “lardiri” fatti di argilla e paglia sminuzzata e seccati al sole (fino a 50 anni fa questo era l’unico materiale usato per le costruzioni). Vicino al Municipio, una casa riporta una vecchia insegna, “Società operaia 1908”: ora è frequentata solo da pensionati, dicono in paese. «La gente non è più come un tempo», ci dice Valentina Putzolu, una bella ragazza mora che insieme a sua sorella Gabriella gestisce la panetteria di famiglia. «Nessuno esce più di casa per una passeggiata, i giovani snobbano il paese e per divertirsi vanno a Cagliari. Tutto sta morendo qui e noi con la nostra panetteria, che resiste da tre generazioni, siamo sempre più con l’acqua alla gola. La gente non fa più la spesa in paese ma nei grossi centri commerciali delle “città-mercato”». Valentina non le manda a dire: «I sardi arricchiscono multinazionali non sarde e loro a noi non lasciano niente». No, non conoscono quelli che lavorano all’Alptransit. «La verità è che ormai nessuno più conosce nessuno, non ci si parla più. Tutti girano in auto anche per percorrere pochi metri», dice la giovane donna. Anche Maria, che gestisce il Bar Moderno, parla di un paese boccheggiante. Suo padre, proveniente dal centro dell’isola, è stato emigrato in Germania. «Alle 20 qui sembra ci sia il coprifuoco: tutti rintanati davanti alla tv, e noi che lavoriamo solo nei giorni feriali perché la domenica è un vero mortorio. E pensare che un tempo Serramanna era piena di vita: si figuri che la chiamavano “la piccola Parigi”». Ora la piccola Parigi è solo un ricordo: «La mancanza di lavoro – racconta Maria – inaridisce i rapporti sociali e fa scappare i giovani. Molti si sono arruolati nella Brigata Sassari e sono partiti per l’Iraq. Quelli che rimangono hanno paura d’incontrarsi, di confrontarsi. C’è un male silente e sotterraneo che sta corrodendo il paese: l’apatia.» Uniti nelle radici, gli otto minatori di Serramanna sono tutti addetti ai due “Wurm”* in azione nel comparto Alptransit di Bodio. Quando finiscono il turno, il venerdì notte, spesso si ritrovano a ripercorrere insieme la via di casa. Quattro di loro hanno preso un’auto in modo da poter raggiungere agevolmente l’aeroporto di Malpensa da cui decollano per Cagliari, il capoluogo sardo, ad un tiro di schioppo dal loro paese dove ritrovano le loro famiglie. Donato Lasio, classe 1960, ha portato con sé a Bodio anche suo figlio Mattias di 26 anni, assunto come locomotorista. Affiatati, Silvio Melas, Gianluca Zuddas, Donato Lasio e Marco Pilco da anni si ritrovano a condividere le esperienze di emigrazione e di lavoro. «Rispetto ad altri operai, siamo favoriti dal nostro affiatamento e dalla relativa vicinanza da casa», dice Marco. La maggior parte di loro abita nella zona “residenziale” di Serramanna, così infatti viene chiamato il rione. Più che casette sono villette monofamiliari, qualcuna con tanto di alto muro di cinta, cancello e giardino a testimonianza del benessere raggiunto. La casa è tutto per queste persone, è il loro piccolo mondo in cui si concentra la quasi totalità dei loro guadagni. In un posto dove non ci sono cinema, dove nessuno esce più a fare una passeggiata, dove non c’è la consuetudine di andare in ristorante (anche perché solo pochi potrebbero permetterselo), è comune investire nella costruzione dell’abitazione. Al cortile della casa di Marco Pilco, dove ci accoglie con sua moglie Daniela, si accede da un enorme e massiccio portale, ricavato dalle traversine delle casse in cui nel 1945 si trasportavano le bombe negli aerei (lì vicino, a Villacidro, infatti, durante la seconda guerra mondiale vi era un aeroporto militare). «A guerra finita, – racconta Pilco – si riciclava tutto quanto era possibile, vista la povertà diffusa. Io poi, insieme a Gianluca Zuddas ho restaurato la casa cercando di rispettare il contesto originale. Ho sempre avuto la passione dell’archeologia e della storia e trovo importante riuscire a salvaguardare quanto di antico resta nel paese.» Marco Pilco, come gli altri del gruppo, anche potendo, non porterebbe “su” sua moglie Daniela e suo figlio Alessandro di sei anni. «Non risolverei niente – dice –. Eppoi dovrei ricominciare tutto da capo. Mi piacerebbe ritornare presto in paese ma voglio resistere il più possibile a Bodio perché ho un progetto da realizzare: metter su un piccolo commercio insieme a mia moglie. Semmai questo progetto non dovesse andare in porto fra pochi anni vorrà dire che vedrò la luce dall’altra parte del tunnel.» Intanto, seduta accanto, Daniela Pilco ascolta con un accenno di sorriso. Ha l’aria di una ragazzina ma le sue parole denotano la tenacia e la forza di una donna che ha imparato a padroneggiare le proprie comprensibili paure. Fra Daniela e le altre mogli vi è forte solidarietà e i loro contatti sono pressoché quotidiani. A fungere da ulteriore collante vi sono i legami di parentela. Daniela infatti è la sorella di Donato Lasio e zia di Mattias. Si ritrova così ad avere in famiglia ben tre membri che lavorano tutti al cantiere Alptransit di Bodio. È l’unica del gruppo delle mogli ad avere un’attività, un negozio; le altre sono tutte casalinghe. La incontriamo nella sua casa, insieme a Wilma Zuddas, moglie di Gianluca, locomotorista anche lui a Bodio. «Prima che il lavoro ci costringesse a questa lontananza – ci racconta Daniela – abbiamo convissuto dieci anni e dopo lo stacco non è stato facile da digerire.» Daniela tende a non drammatizzare ma l’idea che Marco lavori sotto la montagna è fonte di apprensione. «Lui cerca di non parlarmi mai dei rischi – ci dice –, minimizza. I pensieri angoscianti mi arrivano lo stesso, quando meno me lo aspetto e devo sempre cercare di sforzarmi di non riversare su mio marito questa preoccupazione. Ne ha già abbastanza per conto suo senza che mi ci metta anch’io ad aumentargli il peso.» Ma cosa si raccontano le mogli dei minatori quando s’incontrano? «I nostri sono rapporti di amicizia sicuramente rafforzati dal vivere anche la stessa esperienza di vita – osserva Daniela –. Ci ritroviamo quasi sempre il sabato o la domenica. Condividiamo la fatica di dover allevare da sole i figli e il poterci sfogare tra noi ci aiuta molto. Per le altre la condizione è resa ancora più difficile dal fatto di non avere un lavoro extracasalingo che eviti loro di macerarsi.» I loro mariti sono comunque visti dagli altri paesani come un’élite fortunata in un centro dove avere un lavoro decente è lusso sempre più raro. «Se i nostri mariti sono partiti – dice la giovane donna – è perché non avevano altra scelta. Eppure, se fosse possibile, preferirei avere un marito accanto con una paga inferiore, perché vivere un rapporto a distanza non è uno scherzo.» Annuisce Wilma Zuddas. «Faccio molta fatica – confida – a sopportare questa situazione. Vivo nell’ansia quotidiana. Abbiamo due figli di 14 e 12 anni e gestire due adolescenti da sola non è facile perché bisogna essere madri e padri contemporaneamente.» Se fosse stata “sola” avrebbe già raggiunto Gianluca in Svizzera. «Con due figli non abbiamo alternative: so che in Svizzera la vita è carissima e lì non avremmo la possibilità di continuare ad avere la serenità economica che abbiamo qui in paese. Così l’unico modo per riuscire a sopportare questa lontananza, che non so quanto durerà, è non pensarci.» * Il “Wurm” (in italiano “verme”) è una gigantesca struttura tubolare ad anelli concentrici adibita al rivestimento della volta della galleria. «L’emigrazione è un fenomeno costante negli ultimi decenni. Oggi però sono soprattutto i giovani ad andarsene, anche laureati, costretti a lasciare il paese che offre loro poche opportunità. Nella regione del Campidano troverà molte altre situazioni simili alla nostra, direi che in modo più o meno marcato tutta la Sardegna soffre dei nostri stessi problemi». A parlare è il sindaco di Serramanna Antonio Marongiu. Nella sala del Municipio racconta che quella di Serramanna non è un’economia in evoluzione ma «in “involuzione”». «Fino a dieci anni fa – spiega – l’asse portante era costituito dall’agricoltura (carciofi, pomodori, barbabietola da zucchero e vigneti), principale fonte di occupazione e quindi di reddito per le famiglie del paese.» L’edificio della Cantina sociale del Campidano e di Serramanna si staglia ai bordi dell’abitato come un triste monumento ai tempi in cui il paese aveva conosciuto sorti migliori. Anche a Serramanna gli effetti della globalizzazione si sono fatti sentire: resistono solo un paio di piccole realtà ai colpi della grande concorrenza, come la Casar, industria alimentare e di trasformazione del pomodoro o lo zuccherificio di Villasor, paese distante pochi chilometri da Serramanna. «Della sicurezza economica di un tempo è rimasto ben poco – prosegue Marongiu –. Siccità prolungata e un sistema d’irrigazione non funzionante, hanno piegato l’agricoltura locale.» Nel giro di pochi anni, il paese si è ritrovato in ginocchio. «L’effetto sull’occupazione è stato devastante. Oggi l’economia serramannese è come un pugile messo a ko, per fortuna un ko non definitivo in cui s’intravedono piccoli e difficili tentativi di ripresa. Noi come amministrazione stiamo cercando di dare delle opportunità alle piccole imprese ma i nostri mezzi sono molto limitati e i problemi enormi. La disoccupazione ha dei tassi inimmaginabili a queste latitudini: oscilla tra il 30 e il 40 per cento.» Il che significa emergenza che rischia di trasformarsi in allarme sociale. «È così – conferma Marongiu –, ci sono persone che, arrivando a trovare un’occupazione solo a 40 anni, maturano ritardi irrecuperabili a livello professionale, ciò che fa di loro degli emarginati nel mondo del lavoro. Non immagina quanto possa essere umiliante e frustrante per un giovane o per una coppia dover fare affidamento per campare su lavoretti di poco conto e sull’aiuto dei familiari.» Di queste situazioni d’emergenza, i servizi sociali se ne ritrovano spesso. «Si tratta di persone che hanno lavori saltuari – spiega il sindaco – o che hanno perso il posto per malattia. Sono i cosiddetti nuovi poveri che per pudore evitano di rivolgersi a noi anche quando la loro situazione è grave. Se non ci fosse la segnalazione di amici, parenti o vicini di casa, se i servizi sociali non riuscissero a scovarli, rischierebbero di sprofondare.» Questo è lo scenario che molti serramannesi cercano di lasciarsi alle spalle emigrando. Come hanno fatto Marco Pilco e gli altri. «Il sacrificio di vivere lontano dalla famiglia – conclude Marongiu – è compensato dalla sicurezza economica. Tant’è che gli emigrati che tornano a Serramanna per le feste o le vacanze si distinguono dagli altri perché sui loro volti si legge la serenità di chi ha finalmente un lavoro sicuro.»

Pubblicato il

08.07.2005 05:30
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