Giustizia

Si riapre il caso del venditore di rose malmenato dalla polizia

Spuntano nuovi elementi a favore della vittima e che dimostrano la mancata collaborazione della Polcom e del Municipio di Lugano

La parola di un venditore di rose pachistano contro quella di due agenti della polizia comunale luganese, sostenuti a spada tratta dal Comando e dal Municipio. L’uomo accusa gli agenti di averlo pestato nel 2015, procurandogli una perforazione a un timpano. Uno scontro sulla credibilità a prima vista impari, visti i soggetti e le forze in campo. Ma il secondo decreto d’abbandono consecutivo annullato dai tribunali per le inchieste lacunose condotte dalla Magistratura, riapre il dossier. E nuovi documenti avvalorerebbero la versione del giovane.

La mattina del primo agosto 2015, «verso le ore nove» stando al suo racconto, i due agenti lo avrebbero fermato, portato nei locali della polizia alla stazione cittadina, spogliato integralmente e picchiato con calci e sberle, tanto da provocargli una perforazione al timpano, attestata da referti medici di due ospedali nei giorni seguenti. Oltre le botte, i due agenti gli avrebbero sottratto 140 euro avuti quel mattino all’ufficio cambi delle Ffs, provento di una nottata trascorsa fuori dalle discoteche a vendere rose.
In assenza di testimonianze o filmati, tutto si gioca sulla parola di un venditore abusivo di rose contro quella di due poliziotti. Uno scontro sulla credibilità a prima vista impari, visti i soggetti e le forze in campo. Conscia di questa eventualità, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone «un’inchiesta effettiva, approfondita, immediata e imparziale». Così non è stato. L’operato della Magistratura ticinese è stato bocciato due volte perché lacunoso. Se la parola fine alla vertenza non è ancora stata posta, è grazie alla caparbietà del giovane e del suo difensore, l’avvocato Nadir Guglielmoni.

Procura bocciata, atto primo
Nel 2015, l’avvocato denuncia il pestaggio contro ignoti, poiché il giovane non sa dare un nome ai suoi aggressori, pur identificandoli come agenti della polizia comunale. L’inchiesta si blocca per mesi, dopo che il Comando della Polizia cittadina afferma che nessun agente si trovasse in stazione quella mattina Nel dicembre 2016, la svolta. Il giovane riconosce in un servizio televisivo uno dei due agenti aggressori. Un primo riscontro della versione del giovane venditore di rose trova conferma, poiché risulta che l’agente identificato fosse davvero in servizio quel primo agosto.
Tempo due mesi, il Pg Noseda emette un decreto d’abbandono. A settembre 2017, la Corte cantonale dei reclami penali lo annulla, statuendo sul ricorso dell’avvocato Guglielmoni. «L’inchiesta effettiva, approfondita, immediata e imparziale» non è stata condotta, constata la Corte. «Il procedimento penale si è concluso sulla base delle risposte e l’acquisizione di dati di tracciamento delle pattuglie fornite dal Comandante della polizia cittadina, di cui il querelante era all’oscuro», scrive la Corte, annotando pure il fatto che «né il denunciante, né i due agenti» siano mai stati interrogati.


Costretto a riaprire l’inchiesta, il Pg Noseda fa interrogare qualche mese dopo il giovane pachistano e uno dei due poliziotti. Quest’ultimo nega fermamente l’accusa del pestaggio e il furto dei 140 euro, dichiarando di non essere mai stato in stazione quella mattina, né di aver fermato l’uomo. I dati sui tracciamenti dell’auto di pattuglia forniti dal Comandante Torrente sembrano confermare la sua versione. Ma vi è un’anomalia. La documentazione del tracciamento inviata dalla polizia, invece d’iniziare dalle ore 7 come richiesto dagli inquirenti, parte solo dalle 8.30. Eppure l’agente era in servizio dalle 4 del mattino. Identica versione la darà il suo collega di pattuglia, interrogato a inizio 2018. A quel momento, l’agente non fa più parte della Polcomunale luganese, poiché assunto quale vicecomandante a Collina d’Oro. Una carica durata pochi mesi, perché scaricato dal Municipio quando diviene pubblica l’inchiesta penale aperta a suo carico per abuso di autorità quando era alle dipendenze della Città di Lugano.


Per la cronaca, l’ex agente luganese è stato condannato in prima istanza lo scorso agosto dal Tribunale penale per favoreggiamento e infrazione alle norme della circolazione, per essersi scattato dei selfie mentre era al volante in compagnia di una ragazza poco più che sedicenne. L’integrità e la credibilità di uno dei due agenti accusato del pestaggio, vacilla. (aggiornamento: nel 2021 la Corte di appello e reclami penali lo ha prosciolto quasi integralmente, confermando solo una multa, ndr.).


Agenti difesi a spada tratta dall’autorità cittadina solo pochi mesi prima, con uno scritto inviato alla Corte dei reclami penali. Il testo, lungo una decina di pagine e firmato dal sindaco Marco Borradori, si fonda unicamente sulla versione dei due «leali agenti», mentre la denuncia del giovane ambulante viene definita «un infame castello di bugie che discredita, miseramente, la già inesistente credibilità del denunciante». A prova della propria tesi, il Municipio allega poi una serie di rapporti d’interventi di polizia nei confronti del giovane, di cui la quasi totalità riguardano la vendita abusiva di rose o perché sorpreso a dormire all’addiaccio in due occasioni. Lo scritto municipale si chiude con un singolare auspicio, «che il giovane non osi affermare che gli atti di violenza siano avvenuti ad un orario diverso».

Il Comando non collabora
Un secondo riscontro oggettivo incrina la versione dei due agenti. La geolocalizzazione attesta che alle 8.30 il loro veicolo era parcheggiato nei posteggi adiacenti alla stazione, messosi in movimento tre minuti più tardi. Eppure entrambi gli agenti avevano dichiarato di non essersi mai fermati in stazione quel giorno. La documentazione del tracciamento dalle ore 7, benché chiesta dagli inquirenti e sollecitata più volte dal legale dell’accusatore, non è mai stata consegnata dal Corpo di polizia.
Richiesta nuovamente a distanza di anni dai fatti, la Polcomunale asserisce che sia andata cancellata dopo le modifiche al sistema informatico. Tanto basta al procuratore Perugini (che aveva assunto il caso dopo la partenza di Noseda), per scagionare i due agenti «in assenza di riscontri materiali e oggettivi», dato che il giovane pachistano aveva indicato l’orario del presunto pestaggio «con certezza alle 9».

Procura bocciata, atto secondo
Di diverso avviso il Tribunale federale. «Non è possibile escludere che i fatti denunciati si siano svolti all’incirca una mezz’ora prima delle 9», sentenzia la massima autorità elvetica, tanto più che il giovane aveva indicato il pestaggio «verso le nove». Il Tf annulla il secondo decreto di abbandono e dispone la continuazione del procedimento penale. Ora tocca a un terzo procuratore generale, Andrea Pagani, riprendere l’inchiesta in maniera approfondita e imparziale come previsto dalla legge, dato per assodato che l’immediatezza sia andata ormai persa, probabilmente insieme alla geolocalizzazione del veicolo di polizia antecedente le 8.30.

Il terzo riscontro
Nell’ultimo mese è emerso un terzo riscontro oggettivo al racconto del venditore di rose. Su richiesta del Pg, l’ufficio cambio della stazione delle Ffs ha comunicato di aver registrato quel primo agosto 2015 un cambio di valuta da franchi pari a 140 euro alle ore 7.49. Pur non essendo stato annotato il nominativo del cliente (richiesto solo per somme superiori a 5mila franchi), si ha la certezza che qualcuno quel giorno in stazione abbia ricevuto 140 euro, esattamente l’importo sottratto dai due agenti a detta del giovane. Interrogato sul perché abbia potuto sbagliare l’orario, il giovane ha spiegato che, non avendo l’orologio, non sa dire con precisione quando sia finito il pestaggio.


Ora la palla è nelle mani del Pg Pagani, chiamato a decidere se pronunciare un terzo decreto d’abbandono o il primo atto d’accusa che, se impugnato, potrebbe far approdare in un’aula di tribunale la lunga e tortuosa ricerca della verità e giustizia.

 

Il commento

Quel pesante sospetto di omertà istituzionale

Perché due poliziotti avrebbero dovuto picchiare gratuitamente un semplice venditore di rose? È la domanda che potrebbe porsi, legittimamente, una scettica cittadina leggendo la storia. Perché un prete abusa di un ragazzino? O un marito picchia la moglie? Far chiarezza sui motivi che spingono degli esseri umani a compiere atti indegni, aiuterebbe forse a comprenderne le ragioni, ma non a giustificarle. Questo almeno in una società civile.


Quel che più indigna in questa storia, non è tanto l’eventuale agire dei due singoli poliziotti per quanto ignobile, ma i pesanti sospetti sui comportamenti dei loro superiori e dalla Magistratura durante le inchieste. Rimanendo ai fatti, l’ambulante ha identificato un agente risultato effettivamente in servizio a quell’ora, la cui autopattuglia era posteggiata nel luogo dove sarebbe avvenuto il reato, nonostante gli agenti avessero sempre negato di essere stati in quel posto a quell’ora. Di recente, è stato confermato che in stazione qualcuno quella mattina ha cambiato 140 euro, l’esatto importo verbalizzato in tempi non sospetti dalla presunta vittima. Perché l’ambulante avrebbe dovuto inventarsi tutto? E soprattutto, come avrebbe potuto la sua fantasia produrre dei fatti poi riscontrati?

 

Il Comando della polizia cittadina ha fornito solo parte della geolocalizzazione dell’autopattuglia, dalle 8.30 invece che dalle 7. Perché non far luce sulla vicenda, collaborando integralmente, fornendo invece solo quei dati monchi a sostegno della versione degli agenti? Nuovamente richiesti a distanza di anni, quei dati integrali sarebbero ormai stati cancellati. «Lei comprende che tali incongruenze sono foriere di inevitabili dubbi e sospetti (dati cancellati? Se sì da chi e per quali motivi?)» scrisse l’allora procuratore Perugini al Comandante della Polizia comunale nel dicembre 2017. Sospetti ancora oggi mai dissipati.  


Perché il Pg Noseda ha assolto una prima volta gli agenti senza nemmeno interrogarli o senza pretendere i dati integrali della geolocalizzazione? Perché il secondo procuratore generale incaricato del caso, Antonio Perugini, fonda l’assoluzione degli agenti sulla «certezza» dell’orario indicato dalla presunta vittima, quando invece quest’ultima a verbale ha detto: «Verso le nove»?

 

Sono tante, troppe, le domande che fanno planare pesanti sospetti sulla reale volontà del Corpo di polizia e della Procura di far chiarezza. Dei sospetti di complicità istituzionale nel proteggere degli agenti che avrebbero picchiato brutalmente una persona inerme, la cui sola colpa era di aver venduto più volte delle rose abusivamente. Sospetti che gettano pesanti ombre sull’intero Corpo e la Magistratura, minando il rapporto di fiducia nei cittadini. In attesa del terzo atto, nell’auspicio che ogni dubbio venga dissipato.

Pubblicato il

04.06.2020 15:51
Francesco Bonsaver

Quel pesante sospetto di omertà istituzionale

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