Spirito olimpico addio

Fra due settimane inizieranno a Vancouver i Giochi olimpici invernali. Sarà il trionfo della retorica del fairplay. Per i fabbricanti di abiti e attrezzi sportivi sarà invece una formidabile vetrina promozionale, che permetterà loro di incrementare ulteriormente le vendite di prodotti realizzati  spesso in aperta violazione dei più elementari diritti del personale. Alla faccia dello spirito olimpico.

Salvo rarissime eccezioni, le grandi marche di articoli sportivi se ne fregano dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori impiegati nelle rispettive filiere di produzione. È quanto risulta da una dettagliata inchiesta svolta da un gruppo di organizzazioni di difesa dei lavoratori impegnate in una campagna per sradicare lo sfruttamento nelle fabbriche fornitrici dei più importanti label della moda sportiva mondiale. In base a questa inchiesta, su otto marchi coinvolti, soltanto uno (Adidas) sembra arrivare ad una risicata sufficienza. E se si possono ancora apprezzare gli sforzi di Nike, tutti gli altri sono nettamente insufficienti. Un quadro desolante, per chi nelle sue pubblicità si presenta come portatore dei più sani valori sportivi.
Agli otto grandi marchi in questione era stato chiesto alla vigilia delle Olimpiadi estive di Pechino 2008 di prendere tutta una serie di impegni a garanzia dei diritti del personale delle loro fabbriche fornitrici, dislocate soprattutto in Cina e in altri Paesi asiatici. Ora essi sono stati giudicati in base agli impegni presi e agli sforzi messi in atto nel frattempo per farvi fronte. Il risultato delle valutazioni è riassunto nella tabella che pubblichiamo in pagina. Ogni marca è giudicata sulla base di dodici obiettivi. Il bollino verde indica che la ditta in questione è interamente d'accordo con l'obiettivo specifico e fa passi concreti per raggiungerlo. Il bollino giallo indica un accordo solo parziale sull'obiettivo. Se il bollino è rosso significa invece che il marchio in questione non condivide l'obiettivo e non farà nulla per perseguirlo. Infine il bollino grigio indica che non è stata data alcuna risposta o che non è stata presa nessuna decisione al riguardo.
È amaro il bilancio di Lynda Yanz, direttrice esecutiva del Maquila Solidarity Network (Msn), un'organizzazione di difesa dei diritti delle donne e delle lavoratrici con sede a Toronto che ha condotto l'inchiesta assieme alla Confederazione sindacale internazionale (Csi), alla Federazione internazionale dei lavoratori del tessile, dell'abbigliamento e del cuoio e alla Campagna "Clean Clothes" ("Vestiti puliti"). Per Yanz «dai Giochi olimpici di Pechino le grandi marche di articoli sportivi non hanno praticamente fatto nulla per superare i quattro principali ostacoli che impediscono ogni progresso in materia salariale e delle condizioni di lavoro. Questo porta in definitiva ad un ulteriore declino dei diritti dei lavoratori».
I quattro ostacoli si riassumono in altrettante strategie per migliorare la situazione delle lavoratrici e dei lavoratori nella filiera produttiva degli articoli sportivi:
1) Sviluppare un clima positivo per la libertà di associazione e per la conduzione di trattative salariali collettive;
2) Eliminare i posti di lavoro precari nella filiera produttiva;
3) Diminuire la frequenza e l'impatto negativo delle chiusure di fabbriche;
4) Aumentare gli stipendi dei lavoratori con l'obiettivo di raggiungere salari che garantiscano il minimo vitale.
La situazione è riassunta così da Jeroen Merk della Campagna "Clean Clothes": «Ovunque nel mondo i dipendenti dell'industria di equipaggiamenti sportivi sono sottoposti a ore di lavoro straordinarie e a forti pressioni, eppure spesso guadagnano meno di un dollaro al giorno. Inoltre molti di loro sono confrontati a rapporti di lavoro precari, a delle minacce costanti di chiusura, a degli ostacoli impressionanti alle libertà sindacali». Mentre Patrick Itschert, segretario generale della Federazione internazionale dei lavoratori del tessile, dell'abbigliamento e del cuoio, mette in risalto l'ambiguità dei grandi marchi sportivi internaizonali: «da un lato dicono di ritenere importante il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori nelle fabbriche che producono oggetti con il loro marchio, ma spesso si dimostrano poco disposti a prendere le misure necessarie per avere finalmente dei posti di lavoro decenti nella loro filiera produttiva».

Pubblicato il

29.01.2010 01:00
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