Votazione del 29 novembre

L’Iniziativa multinazionali responsabili si è infranta conto lo scoglio dei Cantoni conservatori. Pur ottenendo la maggioranza del voto popolare (50,7%), il testo è stato accettato solo da una minoranza di Cantoni (8,5). L’iniziativa non entrerà quindi in vigore. Di questo risultato e dell’accesa campagna ne abbiamo discusso con l’ex senatore ticinese Dick Marty, copresidente del comitato dell’iniziativa.

 

Dick Marty, quale oggi il suo sentimento prevalente?

Non metto in discussione il risultato. Le regole erano note: non abbiamo vinto e me ne rammarico. La vittoria popolare, però, mi sembra importante e ne sono molto felice. Eravamo consapevoli di quanto fosse difficile vincere un’iniziativa, soprattutto contro il Parlamento e un Consiglio federale che si è impegnato come non mai. Tra le soddisfazioni non nascondo quella del voto ticinese perché non era per niente scontato. Oltre alla delusione per il risultato dei cantoni, mi rammarica la partecipazione al voto. Mi aspettavo di più, ma, forse complice la seconda ondata di Covid, l’affluenza è stata minore rispetto all’ultima votazione.

 

Ancora una volta la Svizzera è divisa in due, tra campagna e città e tra latini e germanofoni. Che riflessioni fare?

La Svizzera latina, con qualche eccezione del Ticino in questi ultimi decenni, è sempre stata, con Basilea, la parte più umanista e progressista della Confederazione. A fare pendere la bilancia è stata la Svizzera conservatrice. Ma anche quella cattolica, e questo malgrado la presa di posizione dei vescovi svizzeri tedeschi. È interessante notare che nei Cantoni dove ha vinto il No, le città (Lucerna, Sion, San Gallo, Sciaffusa o Coira) hanno detto Sì. Nelle campagne ha sicuramente pesato l’invito al No della potente Unione Svizzera dei Contadini che ha ceduto alla corte di Economiesuisse in cambio, chissà, di qualche promessa di concessione sul dossier degli accordi di libero scambio. Questa decisione mi ha deluso: mi aspettavo maggiore solidarietà da chi è alla mercé delle multinazionali come lo sono in fondo anche i contadini svizzeri.

 

Quale valenza dare alla maggioranza popolare?

Se noi non abbiamo vinto, è certo che la controparte ha perso. Politicamente il voto popolare non può essere ignorato. Gli avversari hanno sempre detto che mettevano in contrapposizione l’iniziativa al controprogetto. Ora, il popolo svizzero, nella sua maggioranza, ha scelto l’iniziativa e non il controprogetto. Per il Consiglio federale e il Parlamento si tratta di una sconfitta. Questo voto, inoltre, avrà un impatto anche all’estero dove si sta legiferando sulla responsabilità delle imprese. Il fatto che il popolo svizzero, non particolarmente noto per la sua audacia, si sia pronunciato a maggioranza per un testo come il nostro costituisce un segnale importante. Il voto svizzero è l’espressione di una dinamica che non si fermerà più. Alla globalizzazione dell’economia che ha creato squilibri gravissimi e creato zone di non diritto che alcune multinazionali sfruttano in modo vergognoso, seguirà una dinamica di globalizzazione delle norme e dell’etica. Una reazione resa ancora più urgente dallo spettacolare peggioramento delle disparità sociali e dal forte aumento della povertà, estrema conseguenza della pandemia in corso.

 

La Svizzera sarà quindi di nuovo costretta ad inseguire?

Sì. Mi sembra di rivivere fatti che ho già vissuto, ad esempio per quanto riguarda il riciclaggio di denaro. Quando, negli anni ’80, come magistrati abbiamo allertato che c’era un problema legato alla nostra piazza finanziaria la risposta è stata che l’autoregolazione bastava. Così non è stato e, vent’anni dopo e su pressione internazionale, il Parlamento è dovuto intervenire. Quelli che si sono opposti a questa iniziativa fanno parte della stessa classe politica ed economica che non ha voluto la legge sul riciclaggio, che ha tentato di nascondere la vicenda dei beni ebraici o che ha inflitto un’onta alla Svizzera con il grounding di Swissair. Una classe dirigente che ancora alla vigilia del crollo del segreto bancario svizzero diceva che su questo tema non si sarebbe trattato. Con un po’ di lungimiranza, se l’avessimo trattato prima avremmo potuto trarne anche dei benefici. Ma la Svizzera, ormai, reagisce sempre in ritardo. Dov’è la Svizzera che nel 1848 ebbe il coraggio di adottare una costituzione progressista e democratica nel mezzo di un’Europa autocratica e la Svizzera che fondò il Comitato internazionale della Croce Rossa nel 1863?

 

Dato il risultato popolare è ipotizzabile riesumare il primo controprogetto, quello che era stato approvato dal Consiglio nazionale?

Il popolo svizzero si è espresso a favore dell’iniziativa, ma la mancata maggioranza dei cantoni impedisce al testo di dargli un valore costituzionale. Non penso, però, che dal punto di vista politico si possa ignorare la presa di posizione del popolo svizzero. Riprendere e ridiscutere il vecchio controprogetto potrebbe essere una soluzione. Questo testo era stato adottato da una chiara maggioranza del Consiglio nazionale e noi ci eravamo impegnati pubblicamente a ritirare l’iniziativa in caso d’adozione. Avevamo fatto delle concessioni che ci sembravano accettabili, anche perché non essendo un testo costituzionale questo controprogetto sarebbe subito entrato in vigore. Ma così non è andata.

 

Cosa è successo?

È successo che Economiesuisse si è scatenata con un lobbying sfrenato al Consiglio degli Stati dove la proposta non è passata. Poi c’è stata una conferenza di conciliazione tra le due camere per scegliere quale dei due controprogetti scegliere. Qui è andato in scena un altro scandalo: i due consiglieri nazionali del Plr e dell’Udc promotori del controprogetto più vincolante sono stati esclusi dai loro partiti dalla conciliazione ed ha così prevalso, di misura, la proposta promossa dagli Stati. Se ciò fosse stato fatto dal Ps, si sarebbe parlato di metodi sovietici.

 

L’idea del controprogetto meno vincolante è stata portata avanti da Karin Keller-Sutter. Come valuta il suo ruolo nel combattere l’iniziativa?

Credo che la portavoce di Glencore non avrebbe potuto fare meglio. Non si è mai visto un impegno così da parte di un consigliere federale. Un impegno, però, fondato sulle menzogne. La maniera con la quale Karin Keller-Sutter ha portato avanti argomenti quali l’inversione dell’onere della prova o il numero spropositato di aziende che sarebbero state toccate dal testo mi ha irritato profondamente. Posso capirlo da un oppositore, da un’azienda, ma non posso tollerare che un membro del Governo, e certamente non una Ministra della Giustizia, invii un messaggio distorto alla popolazione. Da un punto di vista istituzionale ciò è inquietante. Ma c’è un’altra cosa che mi turba e non mi spiego del Consiglio federale.

 

Cosa?

Come ad ogni oggetto in votazione, un consigliere federale fa un’allocuzione dove spiega la posizione del Governo. In questo caso il compito è stato affidato ad Alain Berset. Niente giustifica il fatto che questo compito fosse affidato a lui, già impegnato sul fronte Covid e il cui dipartimento non ha nessun aggancio con la votazione. Se ne sarebbero potuti occupare Karin Keller-Sutter, Ueli Maurer, Guy Parmelin o Ignazio Cassis, ma così facendo il messaggio avrebbe avuto un impatto meno forte rispetto ad un invito al No fatto da un ministro socialista. Perché Berset ha accettato? La collegialità richiede di non esprimersi pubblicamente contro il parere del governo, ma non obbliga il ministro a difenderlo pubblicamente se il tema non ha alcuna pertinenza con il proprio dipartimento. Tutti sanno che Berset era per l’iniziativa e trovo che questo tipo di manifestazioni non contribuiscano alla credibilità della politica.

 

A proposito di Cassis. Che dire del suo ruolo su questo tema?

Questo è l’altro aspetto inquietante del Consiglio federale. Il suo viaggio in Zambia, a fare da vetrina alla Glencore, proprio mentre il Parlamento stava discutendo dell’iniziativa che aveva in linea di mira la stessa multinazionale, è stato non solo inspiegabile (nemmeno ha incontrato le associazioni di vittime che da anni lottano contro la società), ma anche francamente sconcertante dal punto di vista istituzionale.

 

Dopo questo viaggio che ha comunque suscitato un polverone, Cassis non si è più profilato molto. O sbaglio?

È vero è scomparso dai radar, ma anche nella politica europea non è che si sia sentito molto. Quello che m’inquieta è il suo agire dietro le quinte dove sembra voler promuovere un’azione a largo spettro contro le Ong intesa a favorire gli interessi privati anche nella cooperazione allo sviluppo.

 

Le Ong sembrano il nuovo bersaglio. Il giorno dopo la votazione, politici come Marco Chiesa o Ruedi Noser hanno criticato l’impegno nella campagna di associazioni che beneficiano di soldi pubblici. Cosa ne pensa?

Dopo il voto anche l’ex consigliere federale Pascal Couchepin ha fatto un intervento indecoroso al telegiornale romando dove ha indirettamente invitato a boicottare le Ong che ricevono soldi dallo Stato e che poi lo investono in campagne politiche. Occorre essere chiari su questo punto. A differenza di associazioni come Economiesuisse, le Ong sono certificate da un organismo (lo Zewo) e hanno una contabilità molto trasparente. Ogni franco che è vincolato può essere seguito con la massima precisione e solo i soldi non vincolati possono essere impegnati liberamente, ma sempre e solo conformemente allo scopo dell’organizzazione. Per un’organizzazione che si batte per i diritti umani, l’iniziativa evidentemente rientra in questo scopo. Ma non è solo questo il punto.

 

Qual è?

Si vuole fare credere che il finanziamento della campagna è stato fatto esclusivamente con i soldi delle associazioni. Ciò che non è vero.

 

Sulla stampa si è letto che avete speso 20 milioni di franchi.

È una cifra assurda, che smentisco categoricamente. La campagna è stata possibile grazie ai soldi delle persone e posso garantire che non abbiamo avuto nessun grosso finanziatore: la media delle singole donazioni è stata di 75 franchi e decine di migliaia di cittadini/e vi hanno contribuito. La parte delle Ong non è che una piccolissima parte rispetto ai doni della cittadinanza. Dall’altra parte abbiamo la Glencore o il Credit Suisse, i cui principali azionisti sono il Qatar, oppure Syngenta controllata dalla Cina o la Nestlé che di svizzero ha ben poco. In realtà, il successo e l’originalità della nostra campagna nonché il fervore che hanno suscitato disturbano e turbano chi pensa di avere il monopolio del potere.

 

Umanamente, questa esperienza cosa le lascia?

La vita ha fatto sì che sono stato in molti paesi in cui ho visto la miseria e la disproporzione tra una piccola categoria di ricchi e i poveri. In Congo sono stato scioccato da un paese virtualmente ricchissimo che se non ci fosse non avremmo lo smartphone. Queste esperienze sono alla base del mio impegno per questa iniziativa. Condividere questa battaglia giusta – e che sono sicuro vinceremo – con decine di migliaia di cittadini che, senza nessun tornaconto personale, si sono impegnate e hanno dedicato tempo e soldi a questa causa, mi ha toccato profondamente.

Pubblicato il 

04.12.20
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