La mano invisibile

Una notizia forse estrema, ma emblematica, può servire da spunto. Una premessa: il gruppo ABB, radici svizzere, che produce robot (il 77 per cento è destinato all’industria), per facilitare il “dialogo” con questi automi ha lanciato il modello YuMI, dotato di braccia agili e flessuose, ma anche capace di apprendere al contatto con gli umani (così si dice, letteralmente) grazie al suo programma “touch & feel” (tocca e senti). La notizia è la seguente: uno di questi robot è riuscito a imparare i movimenti di un direttore d’orchestra e martedì 12 settembre ha diretto a Pisa il noto tenore italiano Andrea Bocelli. Fatto estremo e sconvolgente che induce a qualche commento.


L’uno, molto concreto, va agganciato alla vicenda economica-finanziaria che ha tenuto banco per molti mesi come motivo di licenziamenti, di dislocazioni o di riadeguamenti salariali. E cioè: il rapporto franco-euro, che tagliava le gambe alla competitività. Il ricorso alla digitalizzazione è apparso come un antidoto ideale al franco forte (e al costo del lavoro). In un’inchiesta del Credito svizzero, oltre il 72 per cento delle piccole e medie imprese pensava di ricorrervi per salvare la competitività. Un risultato appare ora certo: il franco forte ha accelerato la robotizzazione dell’industria. Ciò significa, in poche parole, che si è sostituito dove era possibile il lavoratore con un robot. Un investimento che valeva la pena: meno salari e assicurazioni sociali da versare, meno diritti da rispettare, impiego a seconda delle necessità, meno imposte, meno noie con i sindacati, più guadagni. Sul piano politico si è recepita la relativa novità (messaggio del Consiglio federale): è la strada da promuovere.


L’avvenire che promettono queste nuove tecnologie è quindi radioso? C’è chi, ancora agganciato al termine “robot” (coniato dallo scrittore di fantascienza Karel Capek, termine derivante dall’antico slavo e che significava servitù, lavoro pesante) continua a credere alla sua missione liberatoria da compiti ripetitivi, umili, noiosi. La realtà non si ferma però qui. I robot, ultrasofisticati, connessi l’uno all’altro, con facoltà cognitive sempre più spinte (l’esempio è significativo) non liberano solo dal lavoro pesante. Sostituiscono semplicemente l’uomo. Che l’esperienza e la conoscenza e l’abilità di un lavoratore possano essere sostituiti da un robot è quindi suscettibile di avere importanti ripercussioni sull’identità al lavoro e sulla gestione delle cosiddette “risorse umane”.


Questa “roboluzione”, com’è stata definita, creerà nuovi posti di lavoro, si sostiene. In una lunga sequenza di studi e rapporti, dagli Stati Uniti (47 per cento di posti lavoro già eliminabili) all’Europa (dal 40 al 60 per cento) c’è un consenso pressoché unanime nel predire che il bilancio generale sarà negativo: ci sarà più distruzione. Con un fenomeno che già emerge prepotente: l’offerta sistematica di lavoro-merce. In altre parole e con l’immancabile inglese: ai datori di lavoro saranno offerti milioni di “crowd-workers”. Un termine che letteralmente significa: lavoro nella folla. Lavoratori disponibili  dovunque a fare il lavoro che i robot non riescono a fare o non gli conviene, a cifre orarie irrisorie.


C’è da sperare che si arriverà perlomeno a far pagare le imposte ai robot: contribuirebbero perlomeno a risolvere i problemi dell’Avs e della previdenza professionale. E poi sarebbe più difficile per le imprese fare... dell’ottimizzazione fiscale (domiciliare i robot a Monaco?), come fanno. Per ora non ci si pensa. Meglio far lavorare di più le donne.

Pubblicato il 

13.09.17
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