Tempo di scelte radicali

Si sta avvicinando la primavera e a me queste brezze agitano i pensieri, anche le antiche idee escono un po' intorpidite dal loro letargo ma si scaldano presto a questo sole che un po' ovunque è diventato propizio. E ci sono questi zefiri gentili che ispirano un certo bisogno di giardinaggio. Diciamo che quando sento parlare di primavera la mano corre alle cesoie. Ma è una spinta ideale, il giardino lo faremo diventare metafora del paese, no, del Paese che sogniamo. Bisogna innanzitutto potare le fronde, i gruppuscoli che remano contro il Grande Disegno che vado ad illustrare. Bisogna eliminare i parassiti, organismi estranei che succhiano la nostra linfa. Niente più innesti. Soprattutto, bisogna tornare alle radici, alle nostre Radici. Quadrate, cubiche, non importa, purché siano profondamente nostre. E un giardino per prosperare deve essere ermeticamente cinto da un bel muro che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia (grazie Montale, lui sì ci era già arrivato). Solo così possiamo essere sicuri che nessun piedone straniero verrà a calpestare strafottente le nostre violette. Nessuno ci ruberà l'insalata che è nell'orto (Maramao perché sei morto?). Ah, l'invasore è alle porte! Dobbiamo difendere i nostri bambini, le nostre donne, i nostri vecchi, i nostri cani e canarini, i nostri gatti, i nostri ricci. Orsù, chiudiamoci a riccio. Tutto quello che è nostro deve rimanere nostro.
Teniamoci stretta anche la nostra lingua. Lingua? Il nostro dialetto! Bisogna parlare solo dialetto, così automaticamente riusciremo a distinguere gli elementi non autoctoni. I colloqui di lavoro devono essere fatti rigorosamente in dialetto. Mi spingo oltre, ognuno deve concorrere nella propria valle. Cosa mi significano questi pendolari tra Sopra e Sottoceneri? Se tu, biaschese, vuoi veramente lavorare a Balerna, devi prima sciacquarti i panni nella Breggia. E viceversa, ovviamente non vogliamo essere ingiusti. È chiaro che così non potrebbe più filtrare neanche il perfido frontaliero, non è questione di tetti numerici ma di barriere linguistiche. Scaveremo con le nostre mani, i nostri picconi, le nostre pale, ecc. il vallo della "ü". No, non basta. Maledizione! Come facciamo poi a distinguerci dai lombardi o dai turchi? Ci vorrebbe un suono solo nostro… böh? Tünnel? Ci penseremo su (sü).
Intanto dobbiamo cominciare a contingentare tutto quello che gli stranieri vogliono toglierci. Contingentiamo più che possiamo: il lavoro, l'aiuto statale, l'alloggio, il cibo. Tutto. Il contingente per il nero, paraponzi ponzi pò. Non lasciamoci più prendere in giro da tutti questi profittatori che premono alle nostre, nostrissime frontiere.
Fermiamo l'onda forestiera che tutto omologa e appiattisce. Stop alla globalizzazione, all'internazionalizzazione. Rinserriamoci nei nostri paesini, nei nostri rustici a mangiare la nostra polenta con la nostra gente. Cosa c'è di più divertente e sano che passare una sera alla sagra del rognone di cinghiale?
Rendiamo questo posto veramente inospitale solo così staremo bene.

Pubblicato il

02.03.2012 14:30
Flavia Parodi
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