Questa è una storia che, come tutte quelle non banali e non inventate, pone seri interrogativi e suscita forti reazioni. È la storia di Daniel e Antonio. Entrambi nati nel 1980, ma l’anagrafe è l’unica cosa che li accomuna. Le loro vite si incrociano ma non si amalgamano. Inconciliabili. Vissute su due versanti contrapposti.


Daniel è nigeriano, un figlio del caso. Culla il sogno di poter terminare gli studi dove le tasse universitarie costano meno. Si informa, sa che a Londra ci sono ottime università, ma poi decide di andare in Italia perché qualcuno gli ha detto che gli italiani sono gentili. Parte dalla Nigeria e porta con sé dei libri e qualche indumento. Attraversa il deserto e la Libia, viene più volte arrestato e torturato, infine riesce ad imbarcarsi e giunge a Lampedusa. Ma la sua destinazione è Rosarno, in Calabria, dove ovviamente l’unica università che esiste non è quella degli studi bensì quella della raccolta delle arance controllata dalla criminalità organizzata e quindi retta dal principio dello sfruttamento, ai limiti della schiavitù, delle persone, tanto più se queste hanno la pelle nera.


Antonio è calabrese, un figlio della ’ndrangheta. Il suo destino si delinea già nella culla, quando il padre gli pone vicino da una parte un coltello e dall’altra una chiave. Se il nascituro toccherà prima il coltello sarà un uomo d’onore, se toccherà prima la chiave sarà un infame. Per la gioia del genitore, il piccolo  Antonio tocca il coltello. L’onore dell’uomo è assicurato e l’onorabilità della famiglia consolidata.


Ma, a Rosarno, i neri fanno quello che gli italiani non hanno mai fatto: scendono in strada, manifestano, si ribellano. Due di loro vengono uccisi. La situazione va fuori controllo e questo la ’ndrangheta non lo può accettare. Daniel e Antonio si trovano di fronte, in una specie di duello finale fra due mondi diversi. Come diversa sarà la loro sorte: Daniel in un carcere chiamato Centro di identificazione e di espulsione, Antonio in un carcere vero e proprio con l’accusa di associazione mafiosa. E la piana calabrese dove ci sono gli agrumeti viene letteralmente svuotata. Non è più come prima. Tutto cambiato? Purché nulla cambi!


La storia l’ha raccontata Beppe Casales nello spettacolo teatrale “La spremuta” andato in scena a metà ottobre all’Excelsior di Chiasso e al Paravento di Locarno. Una scelta per niente casuale. Chiasso, porta d’entrata della Svizzera, ha un confronto diretto e quotidiano con il fenomeno dei migranti. E il responsabile della sala locarnese, esule cileno, conosce il dramma della migrazione forzata per averlo vissuto sulla propria pelle.


Lo spettacolo l’hanno proposto i giovani e i pensionati di Unia, dando vita a una forma di collaborazione intergenerazionale intelligente, senza vincoli d’anagrafe, volta a sviluppare la responsabilità e ad accrescere la conoscenza. Perché anche questo è essere e fare sindacato.                                                                                   

Pubblicato il 

05.11.15

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