L'editoriale
La Svizzera è confrontata con una realtà sociale drammatica, che vede le donne fortemente discriminate in tutte le fasi della loro vita: da lavoratrici perché percepiscono salari nettamente inferiori rispetto a quelli degli uomini; e da pensionate perché le loro rendite sono del 30 per cento più basse. In un contesto di questo tipo è semplicemente inconcepibile l’idea di attuare una riforma pensionistica che aggravi ulteriormente la loro condizione. Eppure è quello che sta capitando con la revisione dell’Avs (la cosiddetta AVS 21) attualmente in discussione alle Camere federali, dove proprio l’altro giorno è iniziato, nel peggiore dei modi, l’iter parlamentare.
 
Indifferente alla volontà popolare più volte espressa (l’ultima volta nel 2017) e alle mobilitazioni degli scorsi anni (si pensi al grandioso sciopero femminista del 14 giugno 2019), sordo a ogni appello alla ragionevolezza e denotando scarso rispetto, oltre che poca lungimiranza, il Consiglio degli Stati, trascinato dalla sua maggioranza borghese, ha deciso un taglio netto delle pensioni delle donne di almeno 1.200 franchi all’anno. Questo è infatti il prezzo del deciso innalzamento a 65 anni per tutti dell’età di riferimento per accedere alle prestazioni dell’Avs: una prospettiva che nelle scorse settimane ha suscitato un sussulto di indignazione nella popolazione e che ha portato a raccogliere in pochi giorni quasi 315mila firme (area ne ha riferito) contro una riforma che (ancora una volta) tenta di risolvere i problemi di finanziamento dell’Avs dovuti all’evoluzione demografica chiamando alla cassa le donne. Ma Governo e Parlamento non ascoltano e ostinatamente proseguono sulla via tracciata, addirittura indebolendo le misure di compensazione transitorie a favore della generazione che raggiungerebbe l’età della pensione negli anni immediatamente successivi l’entrata in vigore della riforma: persino questo semplice “zuccherino”, voluto dal Consiglio federale per addolcire l’amarissima pillola, è troppo per i senatori del centrodestra. È solo un dettaglio perché la riforma AVS 21 è irricevibile nel suo complesso, ma che dà la misura dell’arroganza con cui questi ligi servitori del padronato mettono in discussione la giustizia sociale e di genere nel nostro paese.
 

Una giustizia che nel campo del diritto alla pensione si può realizzare solo garantendo a tutte e a tutti sicurezza economica, dunque con un rafforzamento e non certo con operazioni di smantellamento dell’Avs e tantomeno andando a colpire le donne in questo modo. Per sistemare i conti dell’Avs che subiscono gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e del calo delle nascite, non è vietato pensare a fonti di finanziamento alternative (come per esempio i colossali utili della Banca nazionale) da quelle che comportano l’erosione e la cancellazione di diritti. Ma è difficile immaginare una tale presa di coscienza e un cedimento da parte del Parlamento, perché la realizzazione della parità tra uomini e donne in materia di età pensionabile (solo in questa) è quasi un’ossessione, perché rappresenta un passaggio indispensabile per realizzare l’obiettivo finale della pensione a 67 o 68 anni per tutte e per tutti.

Pubblicato il 

17.03.21
Nessun articolo correlato