Si sostiene che il mondo fisico è retto dalla legge dei rendimenti decrescenti. Legge formulata due secoli fa da Turgot, economista francese, per l’agricoltura. Vale anche per l’industria. In altre parole: ogni aumento di produzione diventa via via meno conveniente. C’è però un settore in cui quella legge non funziona quello del “digitale” (numerico, informatico, rete). Qui prevale la legge di un informatico americano (Metcalfe): «l’utilità di una rete (informatica) è proporzionale al quadrato del numero dei suoi utilizzatori». Quindi, in parole semplici, si passa ai rendimenti sempre più crescenti: più ci sono utilizzatori di smartphone o di Facebook, più la “rete” è utile; più si abbonda con Google, migliore è il risultato.


L’economia delle cosiddette “piattaforme” (Google, Microsoft ecc.) è stata definita “il regno dei monopoli naturali”. Il vincente prende tutto (“winner takes all”). Non tanto per un comportamento predatorio, quanto per le caratteristiche dell’ attività. Con la possibilità di abusare della sua posizione dominante. Come di fatto capita e cominciano ad accorgersi alcuni Stati. Per quanto riguarda, ad esempio, gli enormi utili realizzati (grosso modo su introiti publicitari e compravendita di dati) e lo scarsissimo apporto alle casse pubbliche. La regolamentazione di questi nuovi monopoli è sinora una questione rimasta senza risposta. Anche perché prevalgono ricatto e abbaglio. Il ricatto è classico: la defiscalizzazione concessa o il timore di chiedere il dovuto là dove si producono reddito e profitto perché altrimenti si porta la sede altrove. L’abbaglio è epocale: il convincimento che non si paga, il bengodi della gratuità. Eppure ogni clic è un oceano di profitti rigorosamente privati e succhiati a qualcuno (l’unica cosa non social dell’universo social, è stato detto). Come si spiegherrebbe altrimenti lo “spazio vuoto” tra la gratuità di Facebook e i settanta miliardi di patrimonio personale accumulato dal suo proprietario? (Aggiungiamo di transenna che per questo aspetto fiscale la Svizzera, a differenza dell’Unione europea, continua a nicchiare tremebonda).


Due altri aspetti vanno ancora rilevati.
Nelle rivoluzioni industriali precedenti i proprietari delle macchine hanno captato l’essenziale dei guadagni di produttività, quella che Marx chiamava “l’accumulazione primitiva del capitale”. Poi i salariati hanno preteso con l’aiuto dei sindacati la loro parte e si è formata una estesa classe media. La conquista del digitale, dell’intelligenza artificiale, l’imperversare degli algoritmi, la disponibilità di enormi masse di dati, rafforzano l’efficacia del lavoro intellettuale, dei “manipolatori dei simboli” (come diceva Robert Reich, economista di Clinton). Quindi: mentre le rivoluzioni precedenti avevano di fatto raccorciato la scala sociale, diminuendo le diseguaglianze, la rivoluzione digitale la sta riallungando, moltiplicando il numero degli esclusi, quelli dei posti di lavoro poco qualificati e precari, privilegiando invece al massimo l’oligarchia degli inclusi, gli altamente qualificati.
Le rivoluzioni industriali precedenti non hanno mai avuto la pretesa di sostituire il nostro cervello. La rivoluzione dell’informatica-algoritmica pretende invece di agire sul nostro modo di percepire il mondo, pensarlo, condurlo. La frontiera tra vita privata e pubblica scompare, l’intimità va morendo. Anche per questo crescono sfiducia e insicurezza che finiscono sempre per chiedere in nome del popolo l’ uomo forte o il ridotto nazionale.

Pubblicato il 

26.02.19
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