…ma uguali a chi?

In un articolo precedente (pubblicato sulle pagine di questo giornale il 19 aprile 2002) ho cercato di argomentare come la legge sulla parità risulti di difficile applicazione e sia poco utile rispetto al problema delle disparità salariali tra donne e uomini . In particolare se pensiamo alle recenti trasformazioni nelle modalità produttive,in seguito alle quali in gioco c’è proprio la messa al lavoro delle capacità e delle competenze delle persone in carne e ossa nella loro singolarità e differenza, la legge sulla parità, che utilizza quale dispositivo di riferimento l’uguaglianza, non sembra prestarsi ad essere uno strumento efficace per far riconoscere le prestazioni che ore le donne regalano alle imprese. La legge ha anche il grave difetto di contribuire a far pensare che la differenza sessuale sia fondamentalmente un fatto insignificante rispetto alla questione del lavoro e del rapporto che con esso intrattengono gli esseri umani. E la differenza tra uomini e donne sembra diventare meritevole di rappresentazione solo nei termini di un problema di discriminazione da risolvere. Per non partire svantaggiate Con la legge e le sue procedure di applicazione transita l’idea che il valore del lavoro femminile sia subordinato, per la sua definizione, alla misura del lavoro maschile, e che il lavoro femminile non abbia in sé un valore autonomo ma che valga in quanto è uguale o paragonabile al lavoro maschile. Questo continuo doversi riferire ad altro da sé non ci aiuta a far sì che noi donne siamo consapevoli del valore in sé che noi abbiamo: questa attribuzione di povertà di senso ci indebolisce e ci svantaggia nella contrattazione. Inoltre con la sua sua vocazione maniacale alla simmetria la legge si spinge oltre lo spazio del diritto e ambisce a voler rendere nei fatti uguali uomini e donne, penalizzando di conseguenza la possibilità di ricchezza che ci è offerta dall’essere nati in questo mondo di due sessi diversi, e annichilendo la diversità dei nostri desideri. Grazie alle ricerche e alle riflessioni recenti sul lavoro femminile si è potuto ricostruire che, quando sono stati operati dei confronti con il lavoro maschile e le sue qualifiche, il lavoro svolto dalle donne ha finito piuttosto per essere sottovalutato. Nel passato, per esempio, il paradigma del lavoro industriale-fordista-maschile è stato utilizzato nei lavori cosiddetti poco qualificati come un criterio di valutazione preteso come imparziale, che invece ha occultato le capacità lavorative femminili, ha consentito di statuire una sorta di inferiorità produttiva della manodopera femminile, e ha dunque legittimato l’inferiorità dei salari femminili. In realtà, in alcuni settori dell’industria, le donne erano state assunte – ma lo sono tuttora – non solo perché erano una manodopera a buon mercato ma anche perché più idonee, in quanto trasferivano nel lavoro delle competenze e capacità del tutto particolari . Scandalose coincidenze La storica spagnola Cristina Borderias ha addirittura rilevato che negli anni passati si è verificata una scandalosa coincidenza tra le politiche imprenditoriali e la difesa da parte dei sindacati degli interessi corporativi maschili nella costruzione sociale della qualificazione, che ha penalizzato il lavoro femminile. È soltanto a partire dalla fine degli anni Settanta che alcune ricercatrici, tra le quali la francese. Danièle Kergoat, grazie a una impostazione innovativa, hanno cessato di utilizzare come criterio di riferimento la professionalità maschile. Si è così cominciato a dare dignità analitica alle qualificazioni non formali delle donne, e si sono messe in luce, oltre la complessità dell’esperienza lavorativa delle donne, anche le relazioni e l’interdipendenza tra lavoro famigliare e lavoro pagato. Questo lavoro di ridefinizione concettuale è stato reso possibile ed è stato orientato da quel complesso processo di presa di coscienza che è stato il movimento politico (non istituzionale) delle donne. Attualmente cominciano a esserci svariati segnali, più o meno espliciti, di un forte interesse per ciò che le donne portano in ogni ambito sul posto di lavoro. In generale se ne parla soprattutto nei termini di gender, e purtroppo spesso con il risultato di registrare della differenza femminile solo ciò che serve ad aggiornare e a rendere meno irrealistico il modello paritario. Nell’imprenditoria privata in particolare, ora che si è particolarmente attenti all’importanza del capitale umano, sono in atto forme di rivalutazione della cosiddetta specificità femminile che comincia a essere considerata come una fonte preziosa di arricchimento per l’azienda. Nessuna filantropia Molti ricorderanno l’invito che più di un anno fa l’Unione svizzera degli imprenditori aveva fatto agli imprenditori svizzeri di favorire l’introduzione di strutture di lavoro flessibili – quali il part-time e i congedi parentali – e di sostenere la creazione di asili nido, insieme con altre strutture diurne per facilitare l’occupazione femminile .Tra i moventi richiamati per convincere gli imprenditori, non v’era chiaramente quello filantropico (tant’è che il congedo maternità non era tra i correttivi previsti) ma v’era principalmente la necessità di far fronte alla penuria di forza lavoro qualificata, (specialmente con un’alta e medio-alta formazione), che è prevista per i prossimi quindici anni. Questo secondo me è un fatto molto emblematico: l’invito del tutto sui generis dell’Usi testimonia di un bisogno fortissimo di un certo tipo di lavoratrici da parte dell’imprenditoria, ma io direi non solo perché le donne possono essere una possibile manodopera qualificata in sostituzione di quella maschile (il livello di formazione delle donne sta tra l’altro aumentando vertiginosamente in questi ultimi anni) ma proprio perché le donne sono donne e cioè perché hanno delle capacità lavorative diverse dagli uomini che, potenzialmente, le rendono particolarmente produttive nelle nuove modalità del processo di valorizzazione . (La decisione di sostenere la creazione di strutture di accoglienza per bambini, confermata il 18 giugno 2002 dagli Stati e accompagnata dallo stanziamento di 20 milioni di franchi, va letta, secondo me, prima di tutto come una forma di risposta alle necessità economico-imprenditoriali, anche se molti deputati liberali hanno dimostrato di intenderlo poco). Il gruppo femminile milanese di ricerca-ascolto sul lavoro, che ho già segnalato in altre occasioni, ha concluso che le donne mettono all’opera nel lavoro un di più relazionale. Di questo di più relazionale femminile i datori di lavoro sembrerebbero ben consapevoli, e in alcuni sindacati si sta cominciando a parlarne nei termini di un valore aggiunto – come racconta nella rivista «Via Dogana» Maria Bucci dirigente della Cgil – che non viene però attribuito alle donne ma a delle generiche qualità inerenti alle relazioni personali di natura extraeconomica. L’esempio delle infermiere Cresce dunque l’interesse per la differenza femminile, ma a predominare è l’interesse per le differenti qualità lavorative delle donne quando, per dirla alla buona, la posta in gioco è la realizzazione del profitto. Mentre in tutti quei lavori, come molti dei servizi alle persone, che non creano alcun valore (misurabile in denaro) il di più della differenza femminile rimane perlopiù innominato e gratuito. (È significativa a proposito la lettera del signor Kufahl, assistente geriatrico, apparsa il 22 gennaio 2002 sul «Corriere del Ticino», dal titolo «Infermiera, professione fuggita», nella quale si mette a fuoco lo scarso riconoscimento del «valore aggiunto femminile» e la conseguente frustrazione nei lavori infermieristici, che potrebbero essere considerati una delle origini dei numerosi abbandoni di queste professioni). Doris Schüepp, vicepresidente dell’Uss, ha detto alcuni mesi fa che in questi ultimi vent’anni il salario delle professioni tradizionalmente femminili non migliora da se stesso e non evolve secondo le usuali teorie economiche della domanda e dell’offerta. (e neppure in seguito all’introduzione della legge sulla parità, aggiungo io). Da anni c’è penuria di personale infermieristico eppure i salari non sono aumentati come in altri settori (per esempio nell’informatica). Questo è dovuto – ha affermato Doris Schüepp – a delle discriminazioni strutturali. Ma se provassimo ad andare fino in fondo a questo ragionamento dovremmo allora concludere che la questione in gioco va ben oltre il riconoscimento in termini monetari del lavoro svolto dalle donne, e considerare che il problema da risolvere non è di far vedere che un lavoro (quello femminile) ha valore perché è pari a un altro (qualitativamente diverso) lavoro. Lo snodo da affrontare è il riconoscimento nei rapporti sociali e in quelli personali del valore del lavoro femminile in sé, è la nominazione non della sua uguaglianza di valore ma della sua differenza di valore. Alla radice c’è una questione di ordine simbolico. E la legge sulla parità non ci aiuta in questo. Anzi essa contribuisce a mantenere il senso di disvalore in cui è tenuto il lavoro femminile perché ci spinge a cercare fuori da esso la dimostrazione del suo valore.

Pubblicato il

05.07.2002 01:00
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