Processo Eternit

Un processo «assurdo» che gli ha procurato momenti di «grande sconforto» ma di cui ora attende l’esito finale «con serenità», convinto di aver fatto «il meglio» che «come imprenditore» potesse fare quando era alla testa dell’Eternit, cioè «uscire al più presto dalla lavorazione dell’amianto». Dopo anni di silenzio e a pochi mesi dalla sentenza definitiva del processo che lo vede imputato in Italia per le migliaia di morti e di malati provocati dalle sue fabbriche e per cui è stato condannato in appello a 18 anni con l’accusa di disastro ambientale doloso permanente, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny torna a parlare. Anzi a straparlare, a raccontare menzogne e falsità storiche.


Lo fa in una lunga intervista pubblicata lo scorso 20 aprile dal domenicale Nzz am Sonntag. Un’intervista ovviamente ossequiosa, in cui l’intervistato parla a ruota libera ed il giornalista trascrive acriticamente e addirittura lo complimenta per l’immagine «rilassata» che nonostante tutto riesce a dare di sé.
Schmidheiny parla dei «successi» del suo impegno «in favore dell’ambiente e di uno sviluppo sostenibile» in America latina (le cose stanno un po’ diversamente), dei problemi di salute avuti negli anni passati e della sua vita di «pensionato». Racconta nei dettagli anche la sua “giornata tipo”, fatta di «meditazione», di «un po’ di moto», di «letture e cultura» e di «suonate di pianoforte» assieme alla moglie.


Ma i passaggi più significativi sono quelli in cui racconta i suoi primi («difficili») anni da imprenditore, «interamente dedicati a trovare una via per uscire dall’amianto». Un’uscita realizzata «molto presto» tenuto conto della «grande incertezza» che regnava all’epoca, «all’inizio degli anni Settanta»: «È molto facile affermare oggi che si sapeva dei rischi per la salute. Non si sapeva assolutamente nulla: c’erano delle teorie mediche, ma erano molto controverse», bestemmia Stephan Schmidheiny, che aggiunge: «Ciononostante ho deciso e realizzato l’abbandono dell’amianto molto prima che la sua lavorazione venisse proibita».
In realtà della cancerogenicità dell’amianto si sapeva da decenni e, con assoluta certezza scientifica, sin dall’inizio degli anni Sessanta.


Stephan Schmidheiny ha semplicemente deciso, nel nome del profitto, che non fosse così, come emerge chiaramente dagli atti del processo di Torino e persino dalle testimonianze di suo fratello Thomas (con cui dice di avere «pochi contatti» e un «legame non molto stretto») e da Leo Mittelholzer, ultimo amministratore delegato di Eternit Italia e storicamente uomo di fiducia della sua famiglia: «La necessità di una strategia di disimpegno dall’amianto era un tema di discussione ricorrente nei congressi e nelle riunioni del management» del gruppo Eternit, disse Mittelholzer evocando almeno tre «riunioni strategiche» sul tema «dirette da Stephan Schmidheiny». La più celebre è quella tenutasi a Neuss (Germania) nel 1976, dove Schmidheiny convocò tutti i manager del gruppo per organizzare una vera e propria strategia di disinformazione con l’obiettivo di tranquillizzare i lavoratori e gli acquirenti dei prodotti Eternit e mantenere i livelli di redditività.


Dagli interventi di Schmidheiny (lui aprì e chiuse i lavori) agli atti del processo, emerge la «sua piena consapevolezza» del «nesso causale che univa le fibre di asbesto alle patologie tumorali». Schmidheiny esordisce andando subito al punto centrale («l’argomento più urgente da trattare è rappresentato dai problemi concernenti i posti di lavoro delle fabbriche in cui ci sono polveri di amianto»), ammette che le malattie asbesto-correlate «sono ormai un fenomeno conosciuto da tempo», afferma «l’esigenza» di organizzare «una reazione difensiva» dai «notevoli mezzi messi in campo contro l’amianto», riconosce che sino a quel momento (siamo nel giugno 1976) non si è ancora proceduto (in quanto non «ritenuto necessario») ad investimenti in materia di sicurezza e tutela dell’ambiente di lavoro) e detta la linea politica del gruppo: dichiara innanzitutto la ferma volontà di continuare ad «essere» e di «potere e dovere convivere con questo problema», pur nel riconoscimento «che l’amianto-cemento può essere potenzialmente un materiale pericoloso, se non viene maneggiato in maniera corretta» e con l’impegno di «procedere alla lotta contro la polvere nelle aziende in modo naturale» eseguendo «i lavori necessari senza tanto scalpore, ma con energia», così evitando «forme di panico» ed evitando che i lavoratori potessero «rimanere scioccati» come accaduto per i direttori tecnici presenti al convegno. Convegno che peraltro conduce, pochi mesi dopo, alla redazione di un documento per aiutare i dirigenti locali a rispondere alle possibili contestazioni contro l’amianto da parte di operai, sindacalisti, giornalisti, vicini di stabilimento e clienti.


Per questo suo comportamento ci sono oggi migliaia di malati e di famiglie in lutto (2000 morti solo a Casale Monferrato, sede del più grande stabilimento italiano), ma Stephan Schmidheiny continua a ritenere «assurdo» che dopo «tanti anni» venga chiamato a renderne conto davanti a un tribunale.

 

Pubblicato il 

02.05.14

Edizione cartacea

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