La Svizzera un paese modello per la libertà di stampa? Non proprio secondo Gilles Labarthe, giornalista e ricercatore romando che ha da poco pubblicato un libro sull’inchiesta giornalistica nella Confederazione (Mener l’enquête, Antipodes). Una ricerca, frutto di un lavoro di dottorato all’Università di Neuchâtel, che tocca alcuni aspetti preoccupanti come le difficoltà d’accesso alle informazioni ufficiali, le intimidazioni giudiziarie e il rapporto di forza sempre più sfavorevole di fronte alla pletora di comunicanti professionisti impiegati dal settore pubblico e privato. Ciononostante, chi fa inchiesta sta sviluppando tutta una serie di metodi per liberarsi dal guinzaglio. In occasione dell’odierna giornata mondiale della libertà di stampa abbiamo cercato di approfondire alcuni di questi aspetti con l’autore della ricerca, lui stesso confrontato con queste problematiche nell’ambito della sua attività giornalistica. Gilles Labarthe, lei è giornalista e ricercatore universitario. In che veste ha scritto il suo libro?
Mi sono basato su entrambi gli aspetti. Uno dei soggetti sui quali mi sono specializzato come giornalista è il settore dell’oro in Svizzera. Un settore molto importante, ma anche molto opaco. Ho cercato di ottenere dati e documenti ufficiali dai diversi attori pubblici coinvolti. L’accesso a queste informazioni da parte dell’amministrazione federale, però, mi è sempre stato negato. Spesso senza nessuna motivazione valida. A partire da questa esperienza personale, ho voluto capire in che modo questa prassi fosse sistematica e toccasse altri colleghi svizzeri. Ho posto tutta una serie di domande nell’ottica di un lavoro scientifico che ho poi svolto sia attraverso decine di interviste con giornalisti d’inchiesta in Svizzera, ma anche con un’osservazione partecipante nell’ambito di un film documentario a cui ho preso parte e che indagava proprio sul ruolo della Svizzera nel commercio mondiale di oro. Quale è lo stato di salute del giornalismo d’inchiesta in Svizzera?
Ho percepito una sorta di paradosso. Da un lato, da qualche anno a questa parte, abbiamo assistito a un’ampia pubblicazione di informazioni riservate ottenute dai giornalisti tramite delle fughe di dati, dal fenomeno Wikileaks alle inchieste condotte dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo come i Panama Papers o i Paradise Papers. Queste inchieste, a cui hanno partecipato anche degli editori svizzeri, hanno dimostrato che vi è un forte interesse per questo tipo di giornalismo. D’altra parte, però, la gran parte delle persone che ho intervistato nell’ambito della mia ricerca hanno sottolineato che, in seno alla stampa elvetica, il giornalismo d’inchiesta vive una sorta di agonia. Si parla spesso della Svizzera come di un paese di libertà di stampa e d’informazione, ma la realtà che ho osservato è che la maggior parte dei giornalisti che ho intervistato e incontrato nel corso di questa ricerca hanno smesso di indagare: sono stati sottoposti a troppe pressioni, e sempre meno media sono disposti a pubblicare inchieste per paura delle minacce di azioni penali, misure cautelari o cause legali, che sono diventate sempre più sistematiche negli ultimi dieci anni. Quali sono i motivi di questa agonia?
Diversi intervistati hanno evocato la mancanza di tempo e di mezzi messi a disposizione dagli editori. In maniera generale si fa riferimento ai fenomeni di ristrutturazione, riposizionamento editoriale, fusione o addirittura sparizione che hanno toccato i principali giornali elvetici negli ultimi anni. Sono state evocate anche le pressioni economiche come per esempio il potere d’influenza dei pubblicitari (settore bancario, del lusso, farmaceutico eccetera) che pesano in un contesto in cui questo tipo di entrate sono in forte calo. Poi vi è il rischio sempre più grande di beccarsi una denuncia o, semplicemente, la minaccia di una denuncia. Sul piano della pratica professionale, sono stati evocati alcuni punti problematici come la mancanza di presa di coscienza critica di fronte alle informazioni fornite da tutta una serie di attori, esterni alla professione, ma sempre più presenti nel campo giornalistico. A chi si fa riferimento?
Penso soprattutto a quell’esercito di specialisti della comunicazione impiegati dall’amministrazione pubblica, dalle aziende e dai gruppi d’interesse. Trent’anni fa c’erano due responsabili comunicazione per giornalista; oggi c’è un giornalista ogni 20/30 portavoce o addetto alla comunicazione. Prima si potevano chiamare direttamente le persone a cui ci si voleva rivolgere. Oggi questo è quasi impossibile. Questi portavoce, spesso ex giornalisti, filtrano e a volte bloccano chi vuole porre domande scomode. Nel libro si parla di quinto potere. Di che cosa si tratta?
La nozione di 5° potere è stata proposta da Tom Baistow negli anni 80 per descrivere la maniera con la quale una certa categoria di attori (funzionari dell’amministrazione, politici e i loro portaparola, responsabili della comunicazione del settore privato e di gruppi di pressione) influenzano e condizionano il lavoro giornalistico. Secondo Baistow un quinto potere composto da specialisti della comunicazione e del marketing è utilizzato dalle élites politiche ed economiche con lo scopo di controbilanciare il quarto potere, ossia il giornalismo. Una pressione che può essere esercitata in vari modi, più o meno espliciti, e che in un contesto di crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro dei giornalisti (soprattutto nella stampa locale) aumenta il rapporto di forza del quinto potere rispetto al quarto. Quali sono i metodi utilizzati dal quinto potere?
Lo studio elabora una tipologia di dieci principali blocchi identificati sistematicamente dai giornalisti, che incidono sui loro mezzi d’inchiesta e persino sulla loro reputazione e identità professionale: si va ad esempio dalla canalizzazione delle richieste di informazioni al rinforzamento delle procedure d’accesso, fino ad arrivare all’esclusione di giornalisti “in lista nera” o a pratiche di cybersorveglianza. Vi è poi la prassi, sempre più in voga, della riscrittura: alcuni attori riescono a far modificare degli articoli, o persino a farli eliminare, facendo pressione su editori o direttori. Questa pratica avviene anche per i media del servizio pubblico, come la Rts. Ciò significa che con Internet e i siti web, una parte dell’informazione d’interesse pubblico che fa parte del nostro patrimonio tende a sparire o a essere sorvegliata e riscritta in permanenza. La pressione cresce: la paura di vedere le informazioni diffondersi sui social network spinge i soggetti toccati dalle inchieste a fermare i giornalisti il più rapidamente possibile, in particolare minacciandoli di misure cautelari (un divieto di pubblicazione di un articolo pronunciato da un giudice, ndr). Di fronte a questa situazione, come reagisce chi fa inchiesta?
Ci sono varie possibilità. C’è chi è più collaborativo e chi cerca di districarsi in questa situazione attraverso tutta una serie di astuzie cercando, però, di non rompere i legami con gli attori ufficiali. C’è chi invece adotta metodi più conflittuali, considerando una perdita di tempo quella di confrontarsi con i canali della comunicazione ufficiale. Lei parla anche di metodi creativi o sleali...
Questi metodi sleali dovrebbero essere usati solo come ultima risorsa, quando tutte le altre vie sono state esaurite, cioè le richieste di interviste fatte per telefono, email o lettera. Ma quando l’altra parte, ad esempio l’amministrazione federale, tace completamente e c’è un interesse pubblico a indagare, possono essere necessari altri mezzi. Questo significa investigare sotto copertura (non rivelare che sei un giornalista), rubare immagini e suoni, o sorprendere l’intervistato desiderato davanti a casa sua o in un evento pubblico dove sai che sarà presente. La mia ricerca descrive i principali metodi utilizzati e le loro conseguenze. Questi metodi, però, sono sempre più indispensabili...
Una delle conclusioni di questo studio è che, di fronte alle pressioni, il giornalismo investigativo in Svizzera deve la sua sopravvivenza in parte alla sua capacità di reinventarsi, di sviluppare tattiche e soluzioni “creative”... e quindi, di rimanere sfuggente e difficile da controllare da parte dei poteri politici ed economici. Le nuove tecnologie sono di certo uno strumento utile alle indagini. Sono anche un fattore di rischio?
L’importante mediatizzazione e il forte impatto delle inchieste collaborative transnazionali – spesso basate sul furto di dati informatici – hanno contribuito ad ancorare nel senso comune il fatto che le tecnologie digitali avrebbero permesso un rinforzamento dell’inchiesta giornalistica, anche a livello locale. L’idea è però discutibile. In effetti l’utilizzo delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione pongono tutta una serie di problematiche cruciali. Si va dal semplice rischio di essere confrontati a una sovrabbondanza di dati, le cui fonti e i fatti sono difficili da verificare, fino agli aspetti ancora più critici e sensibili legati alla sorveglianza numerica o alla protezione delle fonti. Vi è quindi questo doppio ruolo: utili e vantaggiose per facilitare la collaborazione, l’accesso alle fonti, l’archiviazione, ma anche molto rischiose e verso le quali occorre premunirsi. --- La difficile trasparenza Ad area lo abbiamo sperimentato più volte: la richiesta di accesso a documenti ufficiali tra-mite la legge federale sulla trasparenza (Ltrans) è un’operazione lunga e, spesso, poco producente. Gilles Labarthe avrebbe voluto dedicare le sue ricerche proprio sulla Ltrans. Ma così non è andata. «Avrei voluto analizzare come i giornalisti hanno integrato questa possibilità nella loro richiesta d’accesso alle informazioni, ma mi sono scontrato con qualche difficoltà. In particolare, la mancanza di volontà da parte dei funzionari incaricati dell’applicazione della Ltrans in seno ai vari dipartimenti dell’amministrazione. Ho quindi rinunciato orientandomi allo studio dell’evoluzione e dei metodi dell’in-chiesta giornalistica». Per il ricercatore la Ltrans è uno strumento ancora da migliorare: «Nelle mie interviste pochi giornalisti hanno evocato la Ltrans come uno strumento poco efficace. La portata della legge è infatti limitata: il segreto di Stato, il segreto degli affari, il segreto bancario limitano di molto l’accesso ai documenti. Inoltre, l’applicazione e l’interpretazione della Ltrans sono loro stesse condizionate da altri testi di legge e dispositivi giuridici, come quelli che intendono proteggere la sfera privata e che, di fatto, ne limitano l’applicazione. A questo va aggiunto che, spesso, la Ltrans è applicata con tempi lunghi e comporta anche il pagamento di spese amministrative. Ciò che, in un contesto di ristrettezze economiche, di concentrazione nel settore della stampa e di ritmi di lavoro accresciuti, rende complesso l’utilizzo della Ltrans come strumento dell’inchiesta» |