Questioni di genere

L’idea di famiglia è stata concepita sulla base di un processo di costruzione sociale: come dire, un assunto culturale, di matrice borghese, che per secoli ha assegnato ai padri determinati ruoli e alle madri altri.

 

Oggi l’istituzione della famiglia, con i diritti civili conquistati dalle coppie omosessuali, assume nuove connotazioni, sollevando questioni sull’uso dei termini per indicare i genitori e apre, anzi, scatena la discussione pubblica. A Zurigo son settimane che politici di vari indirizzi stanno dibattendo su ciò che è lecito da ciò che è “anormale” dopo l’invito dei servizi comunali a usare il termine neutro di genitore e non più di padre e madre.

 

Apriti cielo! E lo scriviamo senza ironia, ben consapevoli che l’argomento è serio, essendo il frutto di un prodotto culturale su cui per secoli abbiamo fondato l’idea di famiglia. Di famiglia tradizionale, “normale”, sana. Le trasformazioni sociali, che seguono alla conquista dei diritti civili, richiedono tempo per essere elaborate, in particolare quando si tratta di argomenti sensibili.
Nell’ultima newsletter il “Servizio di consulenza per madri e padri” della città di Zurigo ha consigliato di usare il termine neutro di “genitore”: basta, insomma, a mamma e papà. Non solo, nel documento si suggerisce alle figure parentali di «mettere da parte la propria impronta di genere e il conseguente gusto nell’abbigliamento del bambino».


Le reazioni, come era prevedibile visto la delicatezza di un tema antico ma in divenire, non si sono fatte attendere. In particolare, Susanne Brunner, che siede nel Parlamento cantonale per l’Udc, è intervenuta battendosi affinché il tema del genere sia bandito dalla comunicazione dell’amministrazione comunale. Per la politica, e per molti che la pensano come lei, i «consigli linguistici» della città di Zurigo sono allarmanti, perché perseguirebbero l’obiettivo della «dissoluzione dei sessi». Inoltre, continua Brunner, «l’educazione dei figli è una questione privata; un campo dove lo Stato non ha il diritto di dare raccomandazioni o linee guida».


Su un punto Susanne Brunner ha certamente ragione: in Svizzera la genitorialità, a differenza di altri paesi del Nord Europa, è sempre stata considerata un fatto privato. Lo dimostra l’esempio della conciliabilità tra famiglia e attività professionale dove gli interventi statali fino a oggi sono stati insufficienti: un problema da risolvere in casa, mica dalla politica.
Di fatto, però, il presupposto borghese che assegna l’attività professionale agli uomini e il lavoro familiare alle donne, non ha mai funzionato completamente. «L’idea tradizionale di famiglia e di ripartizione dei ruoli fra i sessi, che ha prodotto problemi di conciliabilità, non è supportata né da teorie economiche, né da ricerche sociologiche. Gli ultimi studi condotti in Svizzera hanno portato alla conclusione che la risposta sia da ricercare nella rappresentazione che ogni sesso ha del proprio ruolo, tuttora profondamente radicata nel patrimonio ideale della nostra società» si legge nella pubblicazione “Il tempo richiesto dalle famiglie”, pubblicato dalla Commissione federale per le questioni femminili.


Insomma, nelle società patriarcali (come la nostra) si sono attribuite specifiche funzioni in base al genere: al ruolo materno la cura, l’affettività, la protezione emotiva, mentre a quello paterno la guida sulla “retta via”, lo sviluppo della razionalità, l’interiorizzazione delle norme e la conquista dell’autonomia.
Tutto bene fino a quando la trasformazione della società, con l’affermarsi delle famiglie arcobaleno, ha reso evidente che la funzione non corrisponde necessariamente al ruolo: maschi e femmine possono essere in grado di aiutare i bambini e le bambine a crescere in ognuno di questi aspetti, indipendentemente dal proprio genere e in virtù delle disposizioni personali.

Non è l’orientamento sessuale a determinare chi è un buon genitore in grado di fornire cure, modelli formativi ed educativi adeguati. Allora, perché, un bambino dovrebbe essere forzato ad affermare di avere un padre e una madre, se in realtà ha due genitori dello stesso sesso?

 

Alessandro Taurino, classe 1973, formazione di psicologo e psicoterapeuta, è un ricercatore universitario e suoi interessi di studio sono l’identità di genere e la genitorialità omosessuale e transessuale. Fra le sue pubblicazioni troviamo, per i tipi La Meridiana, “Cultura delle differenze e sessualità. Dal rapporto sesso/genere alla fluidità dell’identità” (2021) e, più vecchio di qualche anno (2016), il volume “Due papà, due mamme. Sfatare i pregiudizi”. Il libro è di stretta attualità perché nell’Italia governata da Giorgia Meloni, e da una destra ultraconservatrice, le famiglie arcobaleno sono state recentemente private di diritti precedentemente conquistati, bloccando l’iscrizione all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali.

 

Professor Taurino, la riflessione sulla famiglia e sulle molteplici forme che può assumere, si configura come una questione di straordinaria attualità. Che cosa è, a questo punto, la norma che definisce la famiglia?
I criteri di interpretazione fino a oggi adottati risultano limitati nel descrivere la multiformità delle situazioni esistenti. Viviamo in un contesto socio-culturale sottoposto a continui cambiamenti e per questo è necessario riconoscere le tipologie di composizione familiare, che sono molteplici: una specificità che non va considerata come deviazione della norma o, in termini valutativi, come devianza, ma come differenza da studiare nelle sue peculiarità. Esistono da sempre altre strutture familiari, allargate, ricomposte, monoparentali e ora anche omogenitoriali: una realtà multiforme che non può essere codificata attraverso criteri che definiscono disfunzionale tutto ciò che è diverso dalla standardizzazione normativa di un modello (quello coniugale di tipo eterosessuale) inteso come unico termine di comparazione.

 

Siamo di fronte a un cambiamento di paradigma culturale?
Certamente, in termini simbolici, il riconoscimento del diritto alla genitorialità per le coppie omosessuali si configura come il capovolgimento di una prospettiva antropologico-culturale e segna il passaggio da una rappresentazione di organizzazione sociale centrata sulla logica dell’omologazione e del potere a una fondata sul criterio della regolarizzazione. Parlare di omogenitorialità non significa sviluppare una riflessione su una variante patologica, ma comprendere che la famiglia tradizionale e la genitorialità omosessuale rappresentano, rispettivamenterrtna delle possibili espressioni del sistema parentale al pari di tutte le altre. È necessario questo riconoscimento affinché si possano promuovere reali politiche di cittadinanza volte a garantire la tutela delle diverse istanze identitarie in un contesto di pari diritti e pari dignità.

 

“Per crescere bene, un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà”. Lo abbiamo sentito ripetere tante volte: quanto c’è di fondato in questa affermazione?
Si tratta di uno stereotipo che confonde il ruolo con la funzione. Queste affermazioni non trovano riscontro nella ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psico-sociale degli individui. In altre parole, non sono né il numero né il genere dei genitori a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le capacità educative che ne derivano. Non ci sono presupposti teorico-concettuali, al di là di visioni preconcette, sulla base dei quali è possibile asserire che una persona con orientamento omosessuale sia un individuo incapace di garantire protezione, affetto, cura, sicurezza. Sulla stessa linea di pensiero, non ci sono variabili in grado di chiarire che un eterosessuale è di default in grado di soddisfare questi requisiti educativi indispensabili.


Che cosa fa male al figlio di una famiglia omogenitoriale?
Sono i pregiudizi che creano stigmatizzazione e i vuoti legislativi, semmai, a creare problemi, soprattutto quando vi sono delle mancanze di norme giuridiche, che vanno a minare la tutela dei diritti dei figli. Facendo riferimento ai provvedimenti che si vogliono attuare in Italia, nel caso di morte del genitore biologico, i figli di genitori omosessuali rischiano di essere privati della continuità affettivo-relazionale dell’altra figura di riferimento familiare.

 

Dov’è, dunque, la “perversione”?
C’è una radice politico-culturale che detta le regole per la continua esclusione di ciò che non si conforma al campo delle aspettative culturali legate alla sessualità in funzione di una standardizzazione della realtà intesa come criterio di ordine sociale.

Pubblicato il 

29.09.23
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