Società e donne

Non sono drammi passionali, ma un problema antico, non risolto, che deriva da relazioni diseguali di potere fra i sessi in una dinamica di controllo e di potere alimentata da stereotipi, aspettative di genere che portano alcuni uomini a mettersi in competizione con le donne e, nei casi peggiori, ad annientarle fisicamente, perché non possono accettare, e soprattutto non riescono sopportare, la loro capacità di essere libere e indipendenti.

 

Il caso di Giulia Cecchettin, la giovane neolaureanda veneta, uccisa brutalmente lo scorso 11 novembre dall'ex fidanzato ha come dato uno scossone all'opinione pubblica italiana: da due settimane si parla della vicenda e si è infranto un tabù, chiamando il fenomeno per nome.

«Filippo Turetta (l'omicida, ndr) viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela» ha dichiarato Elena, la sorella della 22enne trovata senza vita in un fosso, riuscendo a far aprire un dibattito necessario. Nel 2023 la parità fra uomo e donna è solo sulla carta, ma non nella realtà dei fatti. Nei paesi arabi, come in Italia, come in... Svizzera.

 

«Non dimenticate mai che è sufficiente una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne» ammoniva la scrittrice e femminista Simone de Beauvoir. Già, ma quali diritti? ci viene da pensare, perché l’ombra lunga del patriarcato continua a soffocare le donne, negando la parità, e continuando (almeno in parte) a portare una parte maschile della società (istituzioni comprese) a considerarle oggetti di loro proprietà. Il femminicidio è la forma più eclatante di un fenomeno, che striscia in ogni ambito della vita di una donna. Perché la questione di fondo è il rifiuto profondo delle libertà femminili, che trovano la matrice, appunto, nel patriarcato.

 

Il 25 novembre è stata designata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita dall’Onu nel 1999, in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana. Ma non dobbiamo andare al di là del mondo per trovare la brutalità, che si traduce in una serie di violenze e diseguaglianze appartenenti al modello culturale, sociale, economico di ogni paese.

 

Francesco Guccini che nell’“Avvelenata cantava «non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni», apre il suo ultimo album con una versione riveduta e corretta di “Bella ciao”. «L’ho dedicata alle ragazze iraniane perseguitate dal regime. Vi ho messo delle parole in farsi, la loro lingua, e l’ho declinata al femminile» ha spiegato il cantautore modenese al quotidiano Repubblica qualche giorno fa. E così Guccini trasforma l’invasore in oppressore, ma l’artista non ce l’ha solo con gli ayatollah: «Gli oppressori sono anche da noi».


Già, mica dobbiamo andare nella Repubblica Dominicana o in Iran. In Svizzera ogni due settimane una donna viene uccisa da un congiunto stretto (il marito, il partner, l’ex compagno, il fratello, il figlio e in casi minori da sconosciuti), mentre ogni sette giorni un’altra donna riesce a sopravvivere a un tentativo di femminicidio.

 

Continuiamo con la macabra lista. Nel 2022 nel nostro paese sono stati commessi 42 omicidi, 25 di questi erano femminicidi avvenuti soprattutto nelle case delle vittime. Nel corso degli ultimi 25 anni il numero dei femminicidi è rimasto stabile e rappresenta, secondo i dati della polizia criminale, una parte importante degli omicidi commessi.

 

Un problema strutturale, con radici profonde nella società, che un gruppo di tre professioniste ha voluto contestualizzare e porre al centro del dibattito. Nel settembre 2020 la giornalista Sylke Gruhnwald, caporedattrice di Republik, fra le fondatrici di Lobbywatch.ch, e associata a Investigativ.ch, convinta dell’importanza della memoria e della documentazione ha lanciato il progetto di ricerca “Stop Femizid”.

 

Sul sito www.stopfemizid.ch vengono elencati e aggiornati i casi delle donne uccise per sensibilizzare l’opinione pubblica e «chiedere conto ai potenti». Perché non vi è ancora piena consapevolezza della dinamica che porta al delitto. «Uccidono la “loro” moglie, la loro “fidanzata”, in alcune culture anche la loro “figlia” o “sorella”, perché le vogliono possedere, non concedere loro la possibilità di autodeterminarsi» sottolinea la giornalista. Le ammazzano «perché non accettano di lasciarle andare, ma vogliono possederle. E, a volte, ci sono uomini che uccidono le donne perché sono... donne. Questi crimini non sono casi isolati, ma espressione di un problema strutturale per l’intera società. In tutto il mondo» continua Gruhnwald.

 

I femminicidi non sono registrati come tali dalle autorità elvetiche e nemmeno chiamati in questo modo. «La Svizzera si rifiuta ancora di parlare di femminicidio a livello federale, ma se un problema di società nel suo complesso non ha neppure un nome, non sarà affrontato in maniera adeguata» aggiunge Nadia Brogger, fra le fondatrici di “Stop Femizid”.

 

La questione era stata sollevata anche dalla politica socialista Marina Carobbio Guscetti a Berna nel 2020: «Il totale di femminicidi nel nostro paese riflette dati allarmanti di un problema che la politica e la società civile nel suo insieme devono affrontare per trovare le giuste soluzioni. L’educazione è molto importante per prevenire la violenza, così come anche l’utilizzo dei termini appropriati per descrivere questi fenomeni. Per questo motivo ho portato il tema in parlamento depositando una mozione (20.3503) per correggere l’art. 113 del Codice penale svizzero in italiano e in francese, togliendo il riferimento alla “passione” a favore di un termine neutro. La mozione non è stata accolta per pochi voti, ma il tema ha avuto molta risonanza sui media, grazie anche alla mia interpellanza 20.3505 per misure concrete per sradicare il femminicidio nel nostro paese».


In Svizzera non esiste, dunque, un organismo ufficiale con il compito di registrare e fare una statistica sugli omicidi basati sul genere. La violenza domestica contro le donne viene ancora considerata come una questione  privata e il termine femminicidio – nonostante il tentativo di Carobbio Guscetti – non ha avuto un’accettazione politica.

 

Tamara Funiciello, la consigliera nazionale socialista, sulla stessa lunghezza d’onda era intervenuta, sottolineando come «la lingua sia potere e il linguaggio crei la realtà», invitando i media a non parlare di “drammi familiari” o “passionali”. La politica sostiene che tali omicidi non abbiano nulla a che fare con l’amore, se non con l’odio e la violenza: «La separazione significa una perdita di controllo per l’autore, l’uccisione dovrebbe ripristinarlo. I femminicidi non sono fenomeni isolati, ma il risultato di una violenza strutturale, il cui punto dii partenza risiede nel rapporto di potere patriarcale insito nella nostra società»

 

Gruhnwald, in qualità di giornalista, è molto sensibile all’argomento dell’uso delle parole: «I media hanno una grande responsabilità nel modo in cui riferiscono e ritraggono la violenza contro le donne e i femminicidi. Nel descrivere l’evento, i professionisti dell’informazione dovrebbero considerare ciò che è rilevante per il crimine. Bisognerebbe, quindi, astenersi dal comportamento, dall’aspetto o dall’abbigliamento delle vittime, da speculazioni su un eventuale consumo di droghe o alcol. Dovrebbero essere evitate espressioni che fanno apparire i femminicidi come eventi fatali, piuttosto che omicidi mirati dietro i quali c’è un problema strutturale: dietro a questi crimini vi è un problema basato su relazioni di potere diseguali. Con i loro articoli i giornalisti influenzano il modo in cui questi problemi sono percepiti socialmente. Se lo fanno con attenzione, è già prevenzione».

 

Intanto, proprio l’altro giorno, sabato 11 novembre, oltre all'omicidio di Giulia Cecchetin, in Veneto, è stato commesso anche il femminicidio di una trentenne nel canton Zurigo, che è stato subito inserito nel sito di “Stop Femizid”. «Con il monitoraggio costante, avremo più dati a disposizione per mostrare quanto sia importante che i servizi di consulenza e i centri di accoglienza per donne in pericolo siano completamente finanziati con fondi pubblici. E deve apparire anche urgente l’avvio di campagne di sensibilizzazione» conclude Gruhnwald.

In Svizzera mancano ancora prevenzione ed educazione e «ogni femminicidio deve venire considerato come un fallimento dei meccanismi di controllo sociale».


Intanto al cinema sta avendo un grande successo di pubblico il film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. La giornalista Concita De Gregorio, nel commentare la grande affluenza di pubblico, fa notare che il film in fondo parla di tutte noi: «Perché quella donna (nostra nonna, nostra madre) che ha il vizio di rispondere al marito, che lavora dentro e fuori casa mentre lui si prende i tempi che ritiene per fare quel che vuole, che sopporta le botte e le umiliazioni (“non sei buona nemmeno a fare la serva”) è una scena di ogni giorno, ancora oggi, nel presente».

 

Dopo decenni di battaglie femministe, siamo ancora costrette a constatare la visione del corpo della donna come oggetto da possedere, da sottomettere, da usare. «La nostra società non è ancora riuscita ad ammettere che la causa della violenza maschile sulle donne è determinata da una cultura ancora profondamente patriarcale, una cultura diffusamente accettata anche da chi dovrebbe tutelare e proteggere le vittime». Nadia De Mond, della Casa delle donne di Milano, ha le idee bene in chiaro: «La violenza di genere ha una matrice culturale, anche perché si fonda sulla disparità. La cultura patriarcale, dalla notte dei tempi, attribuisce un ruolo minoritario alla donna che a sua volta introietta, anche inconsapevolmente, una serie di comportamenti per aderire o avvicinarsi a quel modello. Un modello che si trasmette di generazione in generazione fino a confondere le donne che, a volte, non capiscono le avvisaglie (gelosia, possesso, dover chiedere permesso a un uomo)».


La battaglia si gioca sul piano culturale e le campagne di sensibilizzazione non devono certo limitarsi solo al 25 novembre. Perché le “streghe” prima le mettevano sul rogo, ora le “nuove streghe” sono le donne colpevoli di non voler obbedire agli schemi sessisti nei quali le si vorrebbe ingabbiate, e che lottano per conquistare davvero dignità, parità, autodeterminazione. E soprattutto non sono disposte a dare tregua al maschilismo.

 

Il canton Ticino, dal 25 novembre al 10 dicembre, aderisce alla campagna mondiale “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere”. Qui il programma: link

Pubblicato il 

24.11.23
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