Esclusi dalla disoccupazione perché stranieri:una pratica tutta ticinese

Ecco i metodi arbitrari dei funzionari della Sezione del lavoro, il cui capo non risponde alle nostre domande. I racconti delle persone

Da qualche mese, la sezione del lavoro del Canton Ticino ha modificato la sua prassi sulle richieste d’indennità disoccupazione inoltrate da cittadini con permessi B o L. Una prassi molto restrittiva il cui risultato è che a molte persone viene negato il diritto all’indennità. La conseguenza è rendere ancor più fragile l’intero mercato del lavoro, poiché pone i lavoratori in una situazione estremamente ricattabile davanti al datore di lavoro.
Cancellando il diritto ipotetico alla disoccupazione, la minaccia del licenziamento diventa ancor più pesante nel caso di conflitto sui posti di lavoro.
Nelle righe sotto, vi proponiamo alcune storie di persone che si sono viste negare il diritto all’indennità disoccupazione. Sono storie tratte dalla documentazione contenuta nelle decisioni negative formulate dai funzionari del servizio giuridico della Sezione del lavoro. Sono persone da anni attive professionalmente in Svizzera, paese in cui hanno regolarmente versato i contributi alla cassa disoccupazione.

 

Sergio* da qualche anno lavora come muratore nella medesima impresa di costruzioni ticinese dove aveva lavorato per decenni suo padre. Siamo all’inizio della seconda generazione familiare valtellinese che costruisce strade, case, ponti, ripari valangari e quant’altro nel territorio cantonale. Sergio ha un permesso L perché l’impresa, come da prassi coi nuovi dipendenti, stipula un contratto a durata determinata per lasciarlo a casa d’inverno quando il lavoro cala per via delle condizioni meteo difficili.
Sergio dalla ex moglie e dalla figlia ci va solo ogni tanto, saltuariamente. Lo afferma quando viene interrogato e lo confermano i vicini, pure interrogati. Sergio rientrerebbe dunque nell’aberrante definizione giuridica di falso frontaliere, cioè colui che non rientra giornalmente o settimanalmente nella residenza all’estero. Da falso frontaliere avrebbe legalmente il diritto di scegliere il diritto alla disoccupazione nello Stato che vuole.
Ma stando al ragionamento del funzionario cantonale, Sergio «non è credibile». Poiché la casa dell’ex moglie e la figlia dista poco meno di 100 km dall’abitazione ticinese, non è possibile che «pretenda di risiedere regolarmente presso l’abitazione in Ticino». Per estensione dunque, anche le testimonianze degli interrogati non sono credibili. A questa incredibile pretesa di Sergio, si aggiunge una seconda aggravante a mente del giurista della Sezione del lavoro. Il fatto che quest’ultimo condivida l’appartamento con altri due operai, la soluzione abitativa ticinese deve considerarsi «precaria» avvalorando quindi «il convincimento» nella mente del funzionario «che si tratti di una residenza secondaria». Stando alla deduzione logica del funzionario, Sergio non ha diritto alla disoccupazione elvetica.


Athos* invece da cinque anni trafora le montagne elvetiche dimorando nei vari cantieri sparsi nel paese dove si sta realizzando l’Alp Transit, l’orgoglio dell’ingegneria elvetica per la mobilità ecologica veloce realizzato in gran parte da manodopera estera.
Il figlio minorenne vive in una cittadina del Centro Italia, a cinquecento chilometri di distanza dal Ticino. Dopo la separazione dalla moglie, il tribunale italiano ha sentenziato l’affido del figlio condiviso tra i due genitori con l’obbligo di dimora del minorenne presso i nonni materni. Compatibilmente coi tempi dettati dai turni in galleria o tra un cantiere e l’altro, quando può Athos va a trovare suo figlio. Lo fa per amore paterno naturalmente, ma anche per i doveri imposti dalla legge. Athos ha una madre anziana che vive anche lei nel Centro Italia, a meno di cento chilometri da dove abita il figlio. Dorme da lei quando scende a far visita al figlio. Durante l’interrogatorio, alla domanda sulla frequenza delle visite alla madre, Athos ha risposto, forse precipitosamente, che andava «il venerdì sera e tornava in Ticino la domenica sera». A differenza del caso di Sergio, il funzionario della Sezione giuridica ritiene credibile che Athos si sobbarchi ogni fine settimana più di mille chilometri di viaggio.
Stando così le cose, deduce il funzionario, Athos rientra nella categoria dei veri frontalieri che rientrano giornalmente o settimanalmente. Risultato: il diritto alla disoccupazione è negato a Athos.
Alla decisione negativa, Athos si oppone con il sostegno giuridico del sindacato Unia. A decidere sull’opposizione è una giurista del servizio giuridico, il medesimo ufficio che aveva negato ad Athos il diritto alla disoccupazione. La collega doveva dunque decidere se sconfessare o meno la collega d’ufficio. Bizzarrie a norma di legge.
Motivando il rifiuto del ricorso, vi si leggono argomentazioni interessanti. Primo, avendo un figlio e un’ex moglie in Italia, i suoi affetti sono all’estero.
Un ragionamento che non fa una grinza, storicamente condiviso dalle centinaia migliaia di migranti in questo paese a cui per decenni è stato negato il diritto al ricongiungimento familiare. Secondo: poiché per motivi di lavoro Athos deve dormire nei vari alloggi Alptransit dei cantieri disseminati nel paese «la sua situazione abitativa è alquanto provvisoria». Conclusione, il ricorso è bocciato.


Anche Roberto* è un minatore. Non ha girato la Svizzera nei cantieri Alptransit come Athos, ma da cinque anni ha lavorato ininterrottamente nella galleria ticinese di Sigirino. Questa primavera, terminato lo scavo, lo hanno licenziato. Avendo moglie e i due giovani figli che vivono nel Sud Italia, la tesi del rientro settimanale dai propri cari difficilmente avrebbe retto per negargli la disoccupazione. A questo punto, il problema di Roberto è l’alloggio nel cantiere Alptransit, definito soluzione abitativa precaria.
Poco importa che dopo essere stato licenziato al termine dei lavori di scavo abbia preso in affitto un appartamento di 2 locali nel Mendrisiotto. Troppo tardi, ha sentenziato il funzionario incaricato. Bocciato anche lui.


Nicola* vive e lavora ininterrottamente in Ticino dal 2007. Abita nel Luganese in un appartamento di un locale, a cui si aggiungono una cucina e un bagno. Non è l’alloggio Alp Transit, ma nella logica dell’Ufficio giuridico della Sezione del lavoro lo si può definire «alloggio precario». Nicola vi ha vissuto per 8 anni. Un provvisorio duraturo, verrebbe da dire. Altra aggravante a mente della funzionaria statale: l’aver acquistato 5 anni or sono la casa dove vive la sua famiglia. Richiesta diritto alla disoccupazione? Bocciata.


Fabrizio* invece da tre anni ha partecipato alla costruzione del nuovo Centro culturale luganese. In autunno, terminata la parte di lavori dove era attivo, lo hanno licenziato. Da qualche mese ha ritrovato lavoro in Ticino a tempo indeterminato sempre nell’edilizia ma senza ore minime garantite. A chiamata insomma. Pare sia l’ultima moda di contratto nell’edilizia cantonale. Ma questa è un’altra storia, che non preoccupa i funzionari statali. Col guadagno intermedio di lavoro quasi a tempo pieno, pesa molto poco sulla cassa disoccupazione.
Fabrizio, cittadino spagnolo, ha la famiglia a oltre 2.000 chilometri di distanza dal Ticino. Audace sarebbe stato definirlo falso o vero frontaliere. Rientrare a casa ogni settimana non è fattibile né credibile. Seppur la distanza chilometrica non pare essere un criterio.
Il funzionario del servizio giuridico responsabile del suo caso trova un problema. Fabrizio ha “confessato” che se trovasse lavoro dove vive la moglie e i due figli, ci andrebbe volentieri. Un’ovvietà, verrebbe da dire. Per il funzionario incaricato del caso «si palesa il fatto che Fabrizio si sia trasferito solo per lavoro e sinora non ha concretizzato un legame col nostro territorio». Con questa motivazione anche a Fabrizio vien negato il diritto alla cassa disoccupazione.


Concludiamo lasciando al lettore il compito di sciogliere il seguente dubbio. I funzionari della sezione del Lavoro utilizzano giudizi a geometria variabile finalizzati al medesimo risultato, la bocciatura del diritto alla disoccupazione? Oppure i parametri sono oggettivi e identici per ogni caso valutato?
Chiudiamo ricordando che si tratta di persone, lavoratori che hanno regolarmente pagato i contributi da anni in Svizzera e ora si troveranno a terra, economicamente parlando.

 

 

Sergio Montorfani, capo della Sezione del lavoro, non risponde alle nostre domande

 

Poniamo domande politiche, ci dicono. Ma la legge sulla disoccupazione non è forse figlia della politica? Dibattuta prima in parlamento e poi legiferata. E poi c’è la stampa che pone domande legittime comunque le si voglia bollare.
Certo, poi noi abbiamo anche delle opinioni che, senza subdoli giri di parole, stiamo dichiarando in maniera franca: questa si chiama libertà di stampa, ricordiamo ai tanti “Je suis Charlie”.
Dunque, abbiamo posto una serie di domande (d’accordo tante, più di una decina) a Sergio Montorfani: «Purtroppo non ho assolutamente il tempo materiale per rispondere in maniera adeguata a tutte le sue domande. Il diritto in materia è estremamente complesso e non voglio dare risposte approssimative con il rischio di generare equivoci tra i potenziali (speriamo che non unicamente potenziali, ndr) lettori».
Montorfani gentilmente ci manda due sentenze del Tribunale cantonale amministrativo, che avevamo del resto già consultato anche noi in internet. Nella sua mail ricorda che «fino a oggi il Tca ha sempre confermato le nostre decisioni in materia, mentre il Tribunale federale amministrativo non ha ancora avuto modo di esprimersi. Se e quando lo farà, ne prenderemo atto e agiremo di conseguenza». È appunto quello che aspettiamo anche noi, che Berna intervenga per dire se tutto ciò rispetta la legge. Il capo della Sezione del lavoro rileva «altresì» che diverse nostre domande «rivestono un carattere prevalentemente politico» e sottolinea che «i nostri servizi applicano le leggi e rispettano la giurisprudenza». Infine – dietro nostra insistenza affinché ci conceda almeno qualche risposta – Montorfani ribadisce che l’intervista si rivelerebbe troppo lunga e «in questo periodo devo affrontare con priorità altre urgenze». Ci invita dunque a un «lungo incontro ad agosto» e ci esorta a sentire «i responsabili della Cassa disoccupazione Unia, che applicano la stessa legge e conoscono la stessa giurisprudenza». Sarà.


Per i nostri lettori qui di seguito riportiamo i punti che avremmo voluto sollevare con Sergio Montorfani.
1. «Si tratta di persone che pur avendo un indirizzo dalle nostre parti, e magari anche il passaporto svizzero, risiedevano oltre confine e avevano i loro centri d’interessi in Italia. Le casse disoccupazione e gli Urc hanno segnalato 200 casi e in oltre 100 di questi abbiamo determinato che non vi erano i presupposti per ottenere le indennità di disoccupazione in Svizzera» da una sua intervista a Ticinonews. Dunque, non basta avere un indirizzo in Ticino e neppure il passaporto rossocrociato. Non è un controsenso che un cittadino svizzero non abbia diritto alle indennità nel suo paese e dove ha lavorato pagando la disoccupazione?


2. A quanti cittadini svizzeri è stato negato il diritto alle indennità? Se hanno il passaporto elvetico, significa che hanno un passato fatto di amicizie nel territorio, dei possibili parenti, delle abitudini legate al luogo di cui sono cittadini. Come si spiega allora il centro d’interessi altrove?


3.Il centro d’interessi è una peculiarità svizzera o è anche degli altri paesi Ue?


4. Il centro d'interessi sembra sottendere che i lavoratori stranieri, ma anche quelli svizzeri (che cosa significa che c'è chi è più svizzero degli altri?), siano in Svizzera solo per un calcolo. Ma il calcolo economico non è un criterio legittimo? Del resto, la maggior parte di tutti noi lavora per la pagnotta. (...).


5. Per considerare il centro d’interessi si considerano aspetti come essere abbonati a quotidiani locali. Noi siamo giornalisti (svizzeri) e non siamo abbonati ad alcun giornale: li leggiamo al bar. Oppure essere iscritti ad associazioni o a club sportivi: non si ha il diritto di decidere che cosa fare alla sera come starsene a casa (o in cantina per gli operai) per riposarsi senza per forza andare a giocare a briscola nell’osteria del paese o a nuotare nella piscina comunale? Non è una pressione di stampo repressivo e poliziesco adottare un simile criterio di valutazione?


6. Si tratta di una prassi adottata anche in altri cantoni o riguarda prevalentemente il Ticino?


7. Quali sono i punti imprescindibili per il cui il centro d'interessi coincida in Ticino?


E poi e poi le domande erano ancora tante e possiamo sforzarci di capire che il capo dell’Ufficio del lavoro – ma anche Stefano Rizzi, Martino Mondada, Athos Taddei ai quali Montorfani ha inviato in copia il nostro scambio di mail – non avessero il tempo. A questo punto ci aspettiamo una risposta da Berna.

Pubblicato il

02.07.2015 21:15
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