Fame di soldi

Ci si dice (Segreteria di Stato dell’Economia) che l’economia svizzera nei primi tre mesi dell’anno è andata bene: cresce, rispetto allo stesso periodo precedente, dello 0,5 per cento il prodotto interno lordo (il termometro pil, valore di tutti i beni e servizi prodotti nel paese o, semplificando, della ricchezza prodotta in un determinato periodo). Domanda: che cosa ha fatto lievitare il Pil? I consumi e gli investimenti in macchinari. Questi ultimi, che presuppongono un calcolo di maggior produzione, lasciano intendere che non si ha una visione negativa del futuro.


Sul lato dei consumi qualche precisazione va fatta: il dato sul commercio è gonfiato dal commercio all’ingrosso, il commercio al dettaglio è diminuito. Quindi le economie domestiche hanno speso meno. Spendono anche gli enti pubblici, lo Stato. Anche la spesa pubblica è diminuita su base annua.

 

Nel primo caso (economie domestiche) è sicuramente il potere d’acquisto, corroso dall’inflazione che ha fatto da freno. Nel secondo caso (spesa pubblica) sono sia il disimpegno sopravvenuto alle politiche pubbliche di intervento e di aiuti che ha caratterizzato il periodo pandemico, sia il gelido ritorno della politica risparmista o d’austerità con l’obbligo, sancito anche dal popolo (come in Ticino), del recupero forzato della parità di bilancio. A nessuno possono sfuggire le molteplici contraddizioni che nutre questa situazione di fatto. Diamone qualche esempio.


Ci si occupa e preoccupa in questi giorni, con una prossima votazione, delle aperture domenicali dei negozi. Dovrebbero significare maggior spesa o possibilità di spesa. Senza però preoccuparsi di come stia ora il potere d’acquisto di economie domestiche o consumatori. O anche dell’indebitamento privato (quello delle economie domestiche ticinesi è tra i più elevati della Svizzera, vorrà pur dire qualcosa), il quale di solito subentra quando il potere d’acquisto va scemando e non è facile rinunciare.


Ci si occupa e preoccupa della spesa pubblica, con un gran cancan delle associazioni padronali, imprenditoriali, perché sono venute meno le commesse pubbliche, gli investimenti nell’edilizia (mangiandosi ora le unghie per aver sostenuto il famoso decreto Morisoli, quello sul pareggio di bilancio, temendo di essere chiamati a pagare più imposte) e non si pensa per niente alla ridistribuzione della ricchezza, che avviene attraverso i giusti prelevamenti fiscali e i trasferimenti sociali, criteri essenziali per sostenere l’economia (come dimostra appunto la crescita del pil dovuta ai consumi).


Ci si occupa e preoccupa dell’inflazione (a livello nazionale) con i classici strumenti di manuale d’economia: quello monetarista o quello di domanda, frenando l’eccesso di moneta o di credito, con l’aumento dei tassi di interesse, calmierando così anche la domanda (ma aumentando, come capita, gli affitti; ed è il cane che si morde la coda). Non ci si preoccupa invece di quella che anche gli anglosassoni, nonostante il loro liberismo, chiamano ormai la “greedflation” (greed equivale a fame di soldi) e cioè l’aumento dei prezzi da parte delle aziende per spillare un vantaggio dall’inflazione e aumentare in tal modo i propri margini di profitto.

 

Calcolo perverso. Tanto che persino un premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, cambiando opinione rispetto a ciò che prima riteneva un’eresia, sostiene ora che, essendo il fenomeno sistematico, bisogna procedere a un controllo mirato di alcuni prezzi. Ciò che non si è mai riusciti a fare, neppure per le medicine o per i costi della salute.

Pubblicato il

07.06.2023 11:08
Silvano Toppi
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