Emergenza climatica, saccheggio delle risorse e impronta ecologica insostenibile, crescente emarginazione sociale ed economica, sistema sanitario e previdenziale in tilt: giocoforza abbandonare il modello socioeconomico in auge. Che fare? Jeremy Rifkin economista, sociologo, noto opinionista, sostiene che la chiave di volta sia puntare sulle nuove tecnologie. Quelle che grazie a miniaturizzazione spinta, potenti calcolatori, telecomunicazione a banda larga, consentono l’internet delle cose (IdC). Ovvero sistemi e oggetti in grado di comunicare, interagire tra loro in modo autonomo, senza mediazione umana, rendendoli “smart”. Smart, aggettivo inglese che originariamente si riferiva alle qualità umane: persona intelligente, abile, veloce; ma che oggidì qualifica anche oggetti e sistemi che hanno le stesse caratteristiche. Rifkin prende quale esempio il sistema energetico elettrico: «L’infrastruttura smart, contrariamente a quella odierna, consente di mediare e organizzare il flusso di elettricità prodotto da un sistema capillare di installazioni appartenenti a milioni di individui, famiglie e centinaia di migliaia di piccole imprese che le hanno finanziate e che si alimentano dalla rete e possono a loro volta alimentarlo per le loro case, automobili, uffici, fabbriche».


La novità è che la tecnologia smart, «per sua natura, fluida e aperta, consente di realizzare economie di scala decentrate, aperte in tutti campi economici». Ovvero concretizzare il «motto pensare globalmente, agire localmente», realizzando la glocalizzazione: un sistema di imprenditoria composto di piccole e medie aziende, insediate in prossimità di risorse esistenti, mercati e bisogni della popolazione, che operano in rete con altre simili sparse nel mondo. La glocalizzazione, spiega Rifkin, consente di realizzare «nuovi modelli commerciali e opportunità occupazionali di massa: un balzo in avanti verso l’economia circolare a zero emissioni ecologicamente sostenibile e resiliente».


La nuova infrastruttura, oltre ad uno sforzo collettivo di tutti gli attori, richiederà anche un diverso modello di gestione e di proprietà. Quello proposto da Rifkin è un ibrido tra pubblico e privato, dove però sia il controllo sulla costruzione dell’infrastruttura sia la sua proprietà rimangono nelle mani delle comunità, dei loro governi locali, regionali e degli stati. Una condizione che modificherebbe sostanzialmente gli attuali ruoli tanto cari al neoliberalismo: lo stato che, in nome della sussidiarietà, è chiamato a creare le condizioni favorevoli alla libertà d’impresa e commercio per le imprese private a cui spetta la produzione di merci e servizi.


Un cambiamento radicale che modificherebbe finalità, funzioni nonché priorità dell’economia: da quelle odierne rette dall’imperativo delle aziende di realizzare  profitto, a quella futura di rispondere in primis ai bisogni fondamentali di tutti gli esseri umani in modo sostenibile. Un deal tutt’altro che scontato per multinazionali e grandi fondi di investimento che si vedrebbero “scippati” da quella che considerano la loro “gallina dalle uova d’oro”!


Insomma il libero mercato e la sua “mano invisibile” non ci guideranno automaticamente alla realizzazione della glocalizzazione e del Green New Deal. E nemmeno basteranno «le mobilitazioni e le pressioni sui governi affinché approvino la legislazione adeguata e incentivino le iniziative ecologiche».


Semmai, sottolinea Rifkin, esse «costituiscono il primo appello a un nuovo tipo di movimento politico tra pari e alla governance comune» dell’era «Glocal in cui le comunità assumono maggior responsabilità e controllo sull’economia e sul proprio futuro».

Pubblicato il 

05.11.20
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