Sanità e politica

Si sentono come dei soldati al fronte o si paragonano a robot fagocitati in una catena di montaggio.

Sono i primi risultati dello studio lanciato da Supsi e Unia sulle condizioni del personale di cura e presentato nei giorni scorsi a Berna. Una situazione estremamente critica che si ripercuote sui dipendenti e, per riflesso, sul benessere dei residenti nelle case per anziani. Un problema che riguarda la società nel suo complesso, cui vanno trovate risposte urgenti: porre le persone al centro, finanziamenti equi e no a profitti speculativi. Unia si prepara alla mobilitazione.

 

«Un settore sul bordo del precipizio» così titolava lo scorso 16 agosto la Neue Zürcher Zeitung un articolo che faceva il punto sulla situazione drammatica vissuta dal personale delle cure sanitarie.
Una situazione confermata in occasione del “Convegno sulle cure”, organizzato da Unia a Berna lo scorso 2 settembre e al quale hanno partecipato esponenti del settore professionale, del mondo scientifico, della politica e della società civile. Una giornata di studio e confronto dalla quale è emersa in maniera univoca la necessità di porre al centro le persone e non gli interessi commerciali e il profitto, perché se «la standardizzazione del lavoro rende la vita dei dipendenti dura, la stessa standardizzazione rende la vita dei residenti miserabile».


Urgono misure immediate per impedire l’abbandono, o l’esodo, della professione e un finanziamento equo delle cure per coprire i bisogni anche in futuro. Il Covid ha solo scoperchiato una crisi in atto da più anni, soprattutto per motivi speculativi, e poche ricerche fino a oggi si sono interessate al personale curante. La principale espressione del loro malcontento si legge nelle loro dimissioni: il tasso in Svizzera è passato dal 20% nel 2013 al 22,4 nel 2019.

 

Ma che cosa non funziona?
Nel corso della presentazione dello studio della Supsi emerge come le case anziani siano essenzialmente orientate al profitto, con un’organizzazione del lavoro rispondente a un principio speculativo con un personale chiamato a rispondere solo ai bisogni primari (nutrire e lavare) dei residenti, mentre buone cure significherebbe dare soprattutto un riscontro alle necessità relazionali delle persone che vivono in queste strutture. E per fare questo ci vuole tempo: quel tempo che non solo non è concesso per meri motivi economici, ma è pure sempre più limitato per il sovraccarico di compiti aggiuntivi al personale (come concludere la giornata lavorativa compilando rapporti al computer).


Il risultato? I dipendenti non hanno altra scelta che razionalizzare la scaletta delle mansioni, penalizzando i momenti di scambio relazionali. I residenti non sono però dei prodotti: «Preferirei poter parlare, piuttosto che essere lavato» ha risposto una partecipante del sondaggio, citando la frase di un anziano. Il non potere dedicare attenzione alle relazioni umane fa soffrire i dipendenti, ancora di più delle cattive condizioni di lavoro: «Quando torno a casa, ripenso alla giornata e ho voglia di piangere» è la testimonianza di una curante.


Dalla ricerca risulta quanto i dipendenti siano incredibilmente attaccati al loro mestiere e a coloro di cui si occupano e questo spiega in parte la loro reticenza a lottare per delle migliori condizioni di lavoro: chi si occuperebbe degli anziani, se loro scioperassero?
La standardizzazione del lavoro sottrae tempo al personale: senza una équipe stabile il lavoro si allunga e diventa più difficile e così oltre alle dimissioni, allo stress e al sovraccarico, aumenta l’assenteismo che amplifica gli sforzi di chi resiste al “fronte”: «Siamo come dei criceti che corrono nella ruota».

Di fatto, se i turni sono organizzati in funzione di obiettivi rigidi prefissati, non sempre è possibile realizzarli, perché nelle cure di lunga durata si presentano in continuazione urgenze. Il personale è stressato, frustrato e lavora più di quello che dovrebbe (lavoro gratuito) al fine di rispondere a richieste incompatibili.


Sono queste alcune delle conclusioni più importanti cui giunge il progetto di ricerca che, lanciato da Unia e Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi), è guidato da Nicolas Pons-Vignon, professore in Trasformazione del lavoro e innovazione presso il Centro competenze lavoro, welfare e società a Manno. Le risposte, date da oltre 1500 partecipanti al sondaggio, hanno permesso di tirare un primo bilancio presentato al “Convegno sulle cure di qualità”.


La qualità delle cure, e dei requisiti necessari per garantirla, non può essere considerato solo un problema sindacale legato agli stipendi, ma incarna una questione centrale di società e politica. Vanno quindi riconsiderati i punti centrali del dibattito pubblico nell’attesa della presentazione del rapporto finale di questo importante e innovativo progetto di ricerca. Progetto che ha voluto mettere al centro dell’attenzione il punto di vista dei dipendenti, il loro sguardo interno.

 

Professor Pons-Vignon, i risultati del sondaggio dicono che il personale di cura, dei servizi della pulizia e della cucina, e dell’animazione socioculturale si sente come fosse un soldato nell’esercito, quando non un robot. Da dove nasce questa sensazione, o meglio frustrazione, che accomuna gli intervistati?

 

«La tragedia di chi è impiegato nelle case di cura è molto significativa. Il lavoro assistenziale, non solo quello infermieristico, è sempre più irregimentato e organizzato per obiettivi. Le mansioni da portare a termine (ad esempio la toilette di un residente) devono essere svolte all’interno di una tabella di marcia fissata in una manciata di minuti: il tempo per ogni compito è stabilito in anticipo ed è legato alla legislazione sul finanziamento dell’assistenza attuata dalle assicurazioni (che assumono una parte dei costi, mentre il resto è coperto dal Cantone). È questa rigidità nell’organizzazione del lavoro, che causa il razionamento delle cure, rende sempre più difficile per i dipendenti passare del tempo conviviale con i residenti, e dà loro l’impressione di lavorare come soldati, robot, operai di una catena di montaggio. Questa impossibilità di svolgere il proprio lavoro come vorrebbero, rende la vita impossibile ai dipendenti, ma anche ai residenti ed è senza dubbio la causa di molte dimissioni e malattie».


Dietro a questa crisi, che cosa si nasconde?


«Dietro la crisi, c’è la trasformazione del mondo del lavoro. Il ramo delle cure è un settore dove si può guadagnare molto e le imprese private giocano un ruolo sempre più importante, con l’obiettivo di massimizzare i profitti. Il fenomeno non è solo svizzero, ma internazionale: sulle case per anziani è in atto una speculazione immobiliare: fondi d’investimento comprano CpA, separano la gestione della proprietà immobiliare e speculano su questa. Aumentano gli affitti e questo costringe le case a limitare i costi. Si tratta di strategie per aumentare i profitti che, oltre a includere la speculazione immobiliare, puntano a ottimizzare i costi, in particolare quelli del personale. Ora, la standardizzazione del settore porta a impiegare meno personale per “produrre” le cure. Non si può mettere a disposizione "tot" minuti per lavare un ospite, come si fa nella catene di montaggio con il tempo stabilito per realizzare la portiera di un’automobile. I servizi alle persone sono processi che non sono conformi a questo modo di operare, perché succedono sempre degli imprevisti, e la qualità delle cure ha a che vedere con la quantità di tempo che si investe con gli ospiti di queste strutture. Si pretende dai curanti un lavoro di produzione. Quando si cura che cosa produciamo? Il tempo che si investe per parlare, per creare delle relazioni non lo possiamo confrontare con il montaggio delle auto».


Significa che le persone non sono curate bene?


«Il lavoro di cura richiede una stretta collaborazione tra il personale e una continuità nei rapporti con i residenti: le frequenti partenze e la necessità di una formazione continua mettono a dura prova le lavoratrici e i lavoratori, mentre disoriontano i residenti. Con l’attuale organizzazione del lavoro, il personale è in grado di soddisfare le esigenze primarie delle cure, ma manca di tempo per quelle relazionali, che sono altrettanto fondamentali per il benessere, la dignità e la qualità di vita dei residenti. I servizi alla persona comportano processi produttivi incompatibili con la standardizzazione e la qualità è inevitabilmente correlata alla quantità di tempo dedicato agli ospiti».


Che cosa bisogna cambiare per migliorare la situazione anche in vista del fatto che si avrà sempre più bisogno di queste figure professionali?
«Le risposte finora attuate sono inadeguate (immigrazione, abbassamento del livello di formazione, interventi blandi per promuovere il benessere nei luoghi di lavoro), perché mancano il bersaglio. L’obiettivo è principalmente quello di limitare gli aumenti dei costi, e non di migliorare le cure, tenendo conto della prospettiva dei dipendenti. Dipendenti che fuggono pur amando questo mestiere: danno il loro massimo, ma l’organizzazione del tempo di lavoro non è buona. I curanti lavano, servono i pasti, mettono a letto i residenti, non avendo però quel tempo in più necessario per curare le relazioni umane con gli anziani a loro assegnati. L’aspetto psicologico dei residenti è trascurato: sono ancora in vita, esistono, vogliono essere considerati. Non ci si può limitare a lavarli e saziarli. Lo scontento del personale non è, dunque, solo una questione di stipendi, c’è un senso di frustrazione, di insoddisfazione, di valori etici che si scontrano con la realtà, di mancanza di riconoscimento per il proprio ruolo. Il punto di vista del personale è chiaro: le cure di qualità devono porre al centro le persone e le relazioni con esse».

 

Molte misure adottate negli ultimi anni minano questo principio: il nuovo finanziamento delle cure ha ridotto le cure a mere pratiche mediche, puntando unicamente sull’efficienza dei costi. E le cifre parlano chiaro: la popolazione sta invecchiando e ha bisogno di maggiori cure e assistenza. Entro il 2040 saranno necessari 54 mila letti aggiuntivi nelle case di cura e 35 mila professionisti in più. «Non è realistico coprire questo fabbisogno con il sistema attuale. Se non cambiano le cose, ci avvieremo verso una crisi nera delle cure» ha ammonito Samuel Burri, responsabile del ramo delle cure di Unia.

Il lavoro di sostegno quotidiano di assistenza – ha continuato il sindacalista – ricadrà sui parenti, soprattutto sulle donne con tutte le conseguenze negative del lavoro non retribuito come rendite basse e povertà al momento della pensione. Per questo la politica è chiamata ad agire con urgenza. Sono fondamentali misure immediate sul piano cantonale e nazionale per impedire gli abbandoni della professione.

 

Véronique Polito, vicepresidente Unia, ha osservato: «La società deve chiedersi come potremo garantire in futuro sostegno di alta qualità agli anziani, alle persone bisognose di cure, ai nostri genitori e ai nostri nonni? E, soprattutto, in che modo, possiamo distribuire equamente i costi?».


Essendo un settore così fondamentale per la popolazione, il dossier entra nel vivo della discussione: «Siamo all’inizio di una maratona» ha sottolineato Vania Alleva, presidente di Unia. Il lavoro è partito e nel 2024 il sindacato realizzerà un manifesto assieme ai rappresentanti della società civile e ai ricercatori della Supsi.


Ci piace concludere con le considerazioni del dottor Beppe Savary, a lungo attivo nella medicina d’urgenza, che oggi gestisce una casa di riposo a Russo, il Centro sociale onsernonese: «Pecunia non curat (...). Non si può vivere di applausi. Friedrich Dürrenmatt diceva che le foglie di alloro delle corone possono al massimo insaporire una minestra. Una società deve essere giudicata da come tratta i più deboli. La nostra società deve sostenere di più e meglio chi si prende cura di loro».

 

Pubblicato il 

22.09.23
Nessun articolo correlato