Affari nostri

Pochi eventi come le guerre, mettono a rischio la correttezza dell’informazione giornalistica. C’è che la comunicazione è parte integrante della strategia bellica. I libri di storia sono pieni di esempi e il secolo scorso ce ne ha mostrati alcuni inequivocabili, su come si possa finire per propagare informazioni false. I due che più mi hanno segnato sono stati quello di Colin Powell che agitava una provetta misteriosa davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, e il cosiddetto “massacro di Timisoara”. Powell, chi ha una certa età lo ricorderà, affermò di avere in mano la prova dell’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. La mossa funzionò a meraviglia, al fine di scatenare una guerra atroce. Non era vero nulla, come hanno poi appurato il Congresso e le Nazioni Unite. La provetta era un colpo di teatro, e le armi di distruzione di massa non c’erano.

 

A Timisoara, anno di grazia 1989, le agenzie di stampa riportarono una carneficina di proporzioni inaudite, si arrivò a parlare di 60.000 morti. Sul luogo c’erano due cronisti italiani, Michele Gambino e Sergio Stingo, che invano chiamarono Roma per dire che si trovavano sulla piazza incriminata e cadaveri non ce n’erano. Ci sono voluti alcuni anni, perché ogni fonte correggesse un falso che aveva dominato le prime pagine. Questi episodi sono diventati per me un monito perenne, che diventa urgenza ogni volta che ci sono conflitti o crisi globali. Non ci credo, finché non vedo le prove. Perché esiste la propaganda ed esiste la sciatteria nel giornalismo, soprattutto quando si parla di morte e sangue, perfetti per un titolo a effetto.


Sta succedendo in queste ore con la notizia di “40 bambini decapitati da Hamas”. Cosa sappiamo, per il momento? A lanciarla è stata una giovane giornalista che si chiama Nicole Zedeck. In una diretta televisiva, ha sparato la bomba. Poche cose ci fanno male, a noi esseri umani, come l’immagine anche solo mentale di creature indifese decapitate. Un’antropologa e un sociologo potrebbero spiegarci come mai. In ogni caso, Zedeck ne ha fatto un post su X (ex Twitter), ed è stata travolta dalle richieste di giornalisti che le chiedevano se aveva visto i corpi e quali fonti avesse. A risposta, Zedeck ha fatto marcia indietro. Ha scritto, infatti, di averlo “sentito dire” da “un soldato”. Precisando che “per il momento è difficile sapere quante vittime ci siano state in quel kibbutz”. L’agenzia di stampa turca Anadolu, che ha un accordo di cooperazione con l’italiana Ansa, ha allora intervistato la portavoce dell’esercito israeliano. Che ha dichiarato: “Abbiamo visto la notizia. Non abbiamo dettagli, né conferme”.

 

Se non è una smentita, poco ci manca. Ma era già partita la macchina infernale del copia e incolla, e dei titoli sensazionalistici. Media di tutto il pianeta hanno dato la “notizia”, accompagnandola con un’immagine che, spiega The Times of Israel, ritrae i corpi di guerriglieri di Hamas morti negli scontri con l’esercito israeliano. Adulti, non bambini. Ieri sera, martedì 10 ottobre, anche un servizio del Telegiornale della Rsi ha infilato nel racconto i bimbi “decapitati”. E sulle televisioni italiane, celebri per l’assenza di equilibrio, un veterano come il giornalista Paolo Mieli ha riproposto la “notizia”.

 

Non credo ci siano dubbi, sul punto di a chi possa far comodo la diffusione planetaria di un’immagine virtuale così violenta. Resta però il problema più grande per gli affari nostri. Se giornalisti e caporedattori non sono in grado di fare le verifiche prima di pubblicare, come possiamo fidarci dei media? Nel 2024 compio 35 anni da giornalista e spesso, lo confesso, mi vergogno della categoria

Pubblicato il 

12.10.23

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