Una volta si parlava di fabbriche, di lotta di classe, di capitale. Scordatevi tutto, non pensate più alla società con quella forma, perché nel frattempo si è fatto un balzo avanti, da non confondere con progresso. Oggi a farla da... padrone è il tecnocapitale e la catena di montaggio si è dilatata, uscendo dai confini fisici degli stabilimenti e trasformando ognuno di noi in operaio. Come siamo diventati forza-lavoro gratutita al servizio della fabbrica digitale globale, ce lo spiega il sociologo Lelio Demichelis, che al fenomeno della digitalizzazione delle masse dedica il suo nuovo libro.

 

La tentazione di iniziare con uno stile da vecchia favola è fortissima. E allora, c’era una volta la fabbrica con le sue ciminiere, i fumi neri, gli operai in tuta, le lotte per il salario e per migliori condizioni lavorative. Ma c’era una volta anche un paese lontano, lontano dove il tempo di lavoro era distinto dal tempo di vita, le vacanze erano la sospensione totale dagli impegni professionali, i negozi erano chiusi la domenica eccetera eccetera. Poi tutto è cambiato.
Negli ultimi decenni, prima di entrare negli anni 2000, «la città industriale ha lasciato posto a una società differente, strutturata su una città globale e digitale, non più attraversata dai confini del Novecento. Era la genesi di una nuova era, più emancipata e libera, soprattutto grazie allo sviluppo tecnologico, panacea di tutti i mali». Così scrive Lelio Demichelis ne “La società fabbrica” (Luiss, 2023), professore di sociologia economica all’Università degli Studi dell’Insubria, che recentemente a Locarno ha presentato il saggio, spiegando l’impatto del digitale su società e individuo in un «percorso di analisi e di riflessione dentro e attorno a ciò che da tempo chiamiamo tecnocapitalismo e alla fabbrica che ne è l’espressione».


Primo punto. Oggi siamo andati oltre i confini fisici delle fabbriche e degli uffici, che erano i luoghi materiali dove si produceva. La società digitale ha trasformato ogni azione del nostro quotidiano in una catena di montaggio infinita, che coinvolge ogni individuo.
Noi? Sì, anche noi, che «abbiamo smesso di essere cittadini, per diventare operai/forza-lavoro: salariati o meno, tutti integrati e ingegnerizzati dall’ incessante lavoro di produzione per il Big Data».

 

Lo studioso ci richiama all’attenzione, mettendo in luce come la fabbrica «il più potente dei dispositivi, si sia fatta più discreta, più sottile, ma anche più pervasiva, più estesa». Demichelis individua una società organizzata, comandata e sorvegliata da manager e algoritmo nella nuova forma di fabbrica diffusa in cui ognuno è operaio/forza-lavoro, mentre produce o consuma per il Big Data. L’impatto sulle nostre vite di questa trasformazione sociale si traduce in alienazione, un termine che abbiamo imparato a usare con l’imporsi delle catene di montaggio.


Ecco, se prima era una unica categoria di lavoratori confrontata con questo sistema, ora ogni individuo partecipa a una catena di montaggio, che è uscita dai confini in cui un tempo era relegata. È questo il balzo avanti di cui si parlava, che non fa rima con progresso. Anzi, tutt’altro. Con la digitalizzazione delle masse sono scomparse le ciminiere, ma i nostri rapporti e i nostri comportamenti «sono diventati alienati, mercificati, ridotti a forme di produzione, di consumo e di controllo. Perché il tecnocapitalismo, che è ormai diventato totalitario, ci vuole produttivi e consumativi per la massimizzazione del profitto privato».


Per Demichelis il nostro tempo sta vivendo un’eclisse, un offuscamento, che ha trasformato l’intera società in una fabbrica. Il sociologo non usa il termine a caso: il suo lavoro di analisi è un viaggio che idealmente parte dal saggio “Eclisse della ragione” del 1947 del tedesco Max Horkheimer, della Scuola di Francoforte. Qui si parla non di un oscuramento temporaneo (come indicherebbe appunto il concetto di eclisse), bensì «totale. Di una ragione da tempo rovesciatasi nel suo contrario: non solo nei totalitarismi politici del Novecento, ma anche e soprattutto in quello della società tecnologica avanzata».


La ragione, quella che dovrebbe salvarci, perde così ogni potenziale di liberazione e di emancipazione («l’emancipazione è liberazione»), trasformandosi invece in un meccanismo di riproducibilità infinita e illimitata del sistema capitalista-industriale. Un totalitarismo usato già dalla prima Scuola di Francoforte per descrivere la società tecnologica avanzata di allora e che oggi, con l’incredibile progresso, è ancora più necessario definire per spiegare questa società automatizzata-amministrata attraverso macchine/algoritmi e il capitale.

 

Lelio Demichelis quella che lei chiama la digitalizzazione delle masse, che cosa è in termini sociologici-economici?
La digitalizzazione è la continuazione del paradigma industrialista, capitalista, taylorista con altri mezzi di connessione, che danno vita a un’industria 5.0, all’interno della quale si presentano scene di una nuova guerra fredda/calda tra Usa/Nato e Russia e Cina. Una guerra che si consuma tutta dentro al capitalismo, al di là delle differenze politiche.


Il modello tecnocapitalista ha un rapporto predatorio verso l’uomo e il pianeta. Possibile che gli individui ci sguazzino dentro in maniera così acritica?
Il tecnocapitalismo ha saputo diffondere il suo canto delle sirene, fatto di consumismo, divertimento, società dello spettacolo in una falsa industria della felicità. Dall’altra parte l’industria culturale è stata plasmata all’interno di una narrazione alla quale ha dato la spinta la rete e in seguito i social, il metaverso. C’è stato un momento, che colloco in coincidenza con la pandemia, dove sembrava si stessero creando i presupposti per valutare criticamente il sistema e per cercare, quindi, un’uscita radicale da queste dinamiche. Poi però quelle importanti fessure politiche e culturali, che si erano create, sono state fatte richiudere in fretta dallo stesso sistema tecnocapitalista e dalla sua propaganda in una grande operazione politica e mediatica, portando le masse a invocare di voler tornare a prima della pandemia e alla sua “normalità”. Quello che poteva essere – che doveva essere, vista la drammaticità della crisi climatica e sociale in atto – un cambio di paradigma antropologico e culturale, cioè una rottura della riproducibilità infinita del tecnocapitalismo, o che poteva essere un varco verso un mondo sostenibile e responsabile per evitare l’ecocidio (cioè la distruzione consapevolmente perpetrata della Terra), è diventata una nuova occasione perduta.

 

Una situazione che mette a repentaglio quella che chiamiamo democrazia?
Il concetto di democrazia è sempre più formale con la crescita della diseguaglianza come scelta politica. La polis viene sempre più governata da algoritmi e dalle macchine, portandoci alla realizzazione ormai (quasi) compiuta di una società automatizzata, cioè a una forma di totalitarismo tecnocapitalista indipendente dai regimi politici in cui l’uomo è alienato da sé stesso. I diritti fondamentali sono solo quelli del capitale e della tecnica e dove la fabbrica diffusa è diventata la forma e la norma di questa nuova organizzazione totalitaria. Le tecnologie stanno costruendo lo spionaggio industriale di massa (la profilazione per il Big Data), ma anche lo spionaggio statale e sovrastatale con la creazione di uno stato di polizia globale, peggio dei totalitarismi politici del Novecento. E mentre da un lato si moltiplicano le rivendicazioni per maggiori diritti individuali, dall’altro si cancellano i diritti umani (si pensi ai migranti) e soprattutto i diritti sociali e ambientali. Rinasce l’autoritarismo come richiesta dei più, tra populismi, sovranismi, tecnocrazie, securitarismi. Siamo di fronte a una decostruzione pianificata della società e alla deliberata desocializzazione degli uomini, che è precondizione per permettere la loro risocializzazione digitale nel ruolo di forza lavoro dell’apparato tecnocapitalista. E così, vent’anni dopo Genova 2001, un altro mondo è ancora più impossibile.

 

Non vede, dunque, speranza?
Il tecnocapitalismo è compulsivamente irrazionale – come dimostra la crisi climatica e ambientale, oltre che sociale – ma si presenta a noi sotto mentite spoglie, come se fosse assolutamente razionale, perché si basa sul calcolo, oggi detto algoritmo. Il vero cambio di paradigma è riuscire a evadere da questa irrazionalità e ritrovare una ragione diversa, umanistica ed ecologica, con un profondo senso del limite, applicando un principio di responsabilità e di precauzione verso la Terra e le future generazioni. Parlare di sostenibilità e resilienza non basta: occorre un gatto capace di rovesciare la scacchiera e le regole del gioco imposte da questa razionalità... irrazionale. Possiamo immaginare un gatto, che simboleggia la ragione umanistica ambientale, che salta sulla scacchiera della ragione strumentale/calcolante-industriale, producendo così uno scarto. Il gatto come metafora di una ragione diversa che solo con un gesto rivoluzionario (ancora la rivoluzione...) fa saltare il gioco perverso e totalitario. Bisogna imporre le condizioni affinché gli uomini possano tornare a dedicarsi anche ad altro, senza sottomettersi alle regole del marketing, del management, dei social, dal taylorismo digitale prigioniero di questa fabbrica diffusa, dove l’individuo non può essere sé stesso, ma deve diventare (s)oggetto produttivo e consumativo, venendo industrializzato incessantemente.


Per lo studioso il vero cambio di paradigma che occorre generare è allora quello di uscire da questa irrazionalità e ritrovare una ragione diversa, umanistica ed ecologica, con un profondo senso del limite, applicando un principio di responsabilità e di precauzione verso la Terra e le future generazioni.

Pubblicato il 

19.01.24
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