Società

Una Berna sotto le bombe

Quest’anno sono stata una bernese doc. Non solo sono uscita di casa anche sotto la pioggia e con la neve, e quando sulla testa incombeva un cielo grigio di quelli da “fine pena mai”. Sono persino andata al mercato delle cipolle, il tradizionale evento popolare pieno di coriandoli, alcolici di prima mattina e le inevitabili salsicce con la mostarda e naturalmente la torta con le cipolle. Osservando la tipica pace elvetica, dove quasi ogni cosa della vita quotidiana funziona piuttosto bene e “die Welt ist in Ordnung” (nel mondo va tutto bene), ancora una volta mi ha colpita come un fulmine a ciel sereno quanto dalle nostre parti ci possiamo permettere tanta serenità nel quotidiano, e in altre aree del pianeta è invece letteralmente l’inferno sulla Terra.

 

Mi sono chiesta come reagirei, se invece di essere una fortunata bernese-romana, fossi oggi una donna palestinese. Ho provato a immaginare che reazione avrei, se fosse bombardata e distrutta UniBern, la costosa sede dell’università della capitale. Cancellate le sedi del tribunale federale a Losanna e a Bellinzona. Decine e decine di ospedali ridotti in macerie. Quasi cento fra giornalisti e giornaliste uccisi, la maggior parte con azioni mirate sugli edifici in cui risiedevano con la loro famiglia, azioni troppo accurate per essere casuali.

 

Ho provato a immaginare i “miei” supermercati, dove vado regolarmente a fare la spesa per la mia famiglia, eccoli qui senza corrente elettrica, senza carburante per far funzionare un generatore, gli scaffali ormai praticamente vuoti, non si vende quasi niente, perché non c’è nulla da comprare. L’acqua di rubinetto che non corre più in cucina, né in bagno. Ore di fila con dei grandi contenitori di plastica, per riempirli di un liquido improbabile che farà venire il mal di pancia a mia nipote. E non avrò antibiotici da darle se le viene un’infezione batterica, né avrò per lei farmaci contro la nausea e per la tosse, e tanto meno antidolorifici: la piccola di casa dovrà essere operata con la minima quantità possibile di anestetico, perché non ce ne sta abbastanza per tutti. Internet funziona a sprazzi, la rete cellulare viene regolarmente interrotta, il telefono portatile lo carichiamo con una batteria di automobile cui sono attaccate prese multiple, che sono circondate da decine di persone che stanno cercando di rimanere in contatto con la loro rete sociale e professionale. Ecco anche i morti nel mondo dell’arte e della cultura. Quel brillante scrittore, l’insegnante di teatro a Basilea, la ballerina classica di Zurigo, le studentesse più promettenti del corso di medicina all’università di Lugano.

 

E naturalmente chi lavora nelle organizzazioni umanitarie, le cui sedi a Ginevra sono state sottoposte a una tale gragnuola di bombe, che sono rimasti in piedi a malapena i muri esterni. Le scuole elementari, medie e superiori, dove ci stavamo nascondendo, per cercare di rimanere in vita, anche quelle ormai sono inabitabili.

 

Un respiro profondo ed eccomi invece nella mia Berna. Pulita, ordinata, dove tutto funziona. Mercatini di Natale, ghirlande luminose. E i giornali che si riempiono di dirette sull’elezione del successore di Alain Berset.

 

Da Gaza ormai invece arrivano soprattutto numeri. Dati che, esattamente come durante l’era Covid, anziché raccontare il presente finiscono per contribuire all’anestesia collettiva dello spirito critico. Nei primi giorni dell’ennesimo disastro nella Striscia, che sarà ricordato come un disastro di proporzioni bibliche, la conta dei bambini morti ancora faceva audience, produceva molti click sui siti dei media. Oggi non fanno più notizia. Ci siamo già abituati. Buon Natale, e buon anno nuovo.

Pubblicato il

14.12.2023 10:38
Serena Tinari
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