“È ora di darsi una mossa”

«Volevamo un elettroschock. Ora l'abbiamo ottenuto». A sintetizzare con tanta efficacia cause ed effetti del dibattito interno al Ps svizzero, è stato il vicepresidente Pierre-Yves Maillard. Le cause scatenanti la discussione sono state due: la famosa intervista di Franco Cavalli apparsa su "laRegioneTicino" lo scorso 11 aprile, e la sconfitta socialista alle elezioni zurighesi di quattro giorni dopo. Gli interventi di maggior peso sono stati quello critico della consigliera federale Micheline Calmy-Rey e quello difensivo del presidente Hans-Jürg Fehr. Sullo sfondo, un intenso brusio di voci discordanti. Ora però, a pochi mesi dalle elezioni d'ottobre, da ogni parte si afferma che il partito deve "darsi una mossa".

La critica di Cavalli era fulminante. Il Ps, aveva detto il consigliere nazionale ticinese, non è più quello dei tempi di Bodenmann: «Nel partito prevale la linea del "vogliamoci bene" e si evitano i dibattiti politici. Il Ps è diventato un partito pigro, di funzionari». A questo primo attacco Fehr aveva risposto con una certa sufficienza e con tono un po' sprezzante: «Franco Cavalli non sa di cosa parla». Ma Cavalli non è l'ultimo arrivato, ha ricoperto e ricopre un ruolo importante nel partito ed è stato capogruppo alle Camere federali. Eppure, secondo il presidente dei socialisti il clima nel Ps non è mai stato così buono: «A differenza che in passato, le discussioni sono corrette e costruttive e il clima è disteso».
Fehr ha però dovuto cambiare registro davanti alle osservazioni, non sostanzialmente diverse da quelle di Cavalli, che gli sono piovute addosso dopo la disfatta alle elezioni zurighesi. In un primo momento ha cercato di schivare l'ostacolo con tre argomenti. Anzitutto la sconfitta era «troppo forte ed eccezionale» per consentire valutazioni immediate, poiché un'analisi avrebbe richiesto più tempo. In secondo luogo, si trattava in definitiva di un incidente occorso al Ps zurighese, e non al partito a livello nazionale, la cui campagna elettorale non ne sarebbe rimasta danneggiata. Infine, lo sbaglio commesso a Zurigo era la mancata mobilitazione della base: sarebbe quindi bastato rafforzare la mobilitazione per superare l'impasse.
Ma quando le critiche si sono fatte più incalzanti, anche replicare è diventato più difficile. Questa volta non era più soltanto una voce isolata, ma un coro di critiche provenienti dalla base e da una serie di esponenti del partito, a cominciare dalla consigliera federale Calmy-Rey. In un'intervista alla "Sonntags-Zeitung", la ministra degli esteri ha chiaramente accusato il Ps di «dare risposte esitanti e incerte a determinate questioni che attualmente inquietano la popolazione: la violenza giovanile, i problemi nella scuola, la convivenza con gli stranieri e l'abuso dello stato assistenziale».
Altre voci hanno rimproverato al partito guidato da Fehr di non mettere al centro la questione sociale, di fare politica ambientale (clima, energia, trasporti) troppo subalterna ai verdi, di essere al rimorchio dei sindacati, di non profilarsi abbastanza nella campagna elettorale, di non "sapersi vendere" e di perdersi in cose inutili. Il presidente ha cercato di parare i colpi, ma con crescente affanno. Ha sottolineato ancora una volta che Zurigo non è la Svizzera, che la questione sociale è sempre al centro della politica del Ps, e che se c'è poca mobilitazione la colpa è delle sezioni cantonali, le quali devono «trarre le conseguenze dal punto di vista dei contenuti, organizzativo e personale». Insomma, «il partito ora deve darsi una mossa, mobilitare la base, scendere nelle strade». Qualcuno gli ha fatto notare che va bene cercare il contatto diretto con i potenziali elettori, ma oggi le battaglie elettorali si vincono sui mass media.
La polemica ha anche evidenziato la spaccatura tra i gruppi che attualmente agiscono nel Ps. Ci sono i sindacalisti (Rechsteiner, Levrat, Daguet, Goll), che spesso dettano al partito l'agenda degli impegni ed alzano la voce per chiedere le dimissioni del consigliere federale Leuenberger. Poi ci sono i pragmatici (Simonetta Sommaruga, Fetz, Janiak, Mario Fehr), che hanno a cuore soprattutto la protezione dei consumatori e vorrebbero un Ps più "alla Blair". Gli idealisti (Leutenegger Oberholzer, Cavalli, Gysin, Vermot), che ogni tanto fanno rumore, ma quasi sempre devono cedere. E infine c'è il gruppo dei romandi, guidati da Pierre-Yves Maillard (con Garbani e Carlo Sommaruga) che di solito prendono un'idea (service public, cassa malati unica) e su quella continuano ad insistere.
In mezzo c'è il presidente Fehr, sostenuto dalla capogruppo parlamentare Ursula Wyss e dal segretario generale del partito Thomas Christen. Non guida un proprio gruppo, ma deve cercare di mediare fra gli altri. Una solitudine pesante, se non si possiede la personalità ed il carisma necessari per trasformare quel compito di mediazione in vera e propria leadership. Ma non tutti si chiamano Hubacher o Bodenmann. E se poi i consiglieri federali socialisti, come i due che ci sono adesso, mettono subito in chiaro che loro non vogliono fare da locomotiva elettorale del partito… guardando a ottobre Fehr può soltanto augurarsi "io speriamo che me la cavo".

Pubblicato il

04.05.2007 02:00
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